mercoledì 15 luglio 2009

Cairano





Cairano non è un viaggio, è un’ascensione piuttosto, un'altitudine intima e greve in cui ci si rifugia quando si è soli, un angolo al riparo in cui sembra esserci già stati qualche volta, magari in qualche tempo; un luogo che risulta difficile da comprendere e pensare anche per l’immaginario più fervido e vivace. Cairano è un paese sospeso nel pallore nebbioso della luce, un posto sorpreso a stento nel colore buio che filtra dall’intercapedine dell’ultimo varco irpino, dal quale già si intravedono i paesaggi sordi e polverosi della Basilicata.

Sapevo che la moto avrebbe sofferto uno strappo così lungo. Lo sapevo, e quando prima del bivio per Andreatta l’ho sentita tossire, ho preferito fare sosta al Bar per mangiare qualcosa. In attesa che si raffreddasse anche il motore della moto, ho ordinato una pizzetta fredda che il barista, impegnato a vedere il gran premio di Formula Uno, mi ha servito con fin troppa poca attenzione. E così ho preso posto all’esterno, su una sedia e un tavolino di plastica bianca sporco e malconcio e ho mangiato con poco gusto perché avevo troppa voglia di arrivare a Cairano ed ero un po’ preoccupato per il cigolio che sentivo arrivare dal serbatoio della moto.

Riparto, seguo le indicazioni per Calitri e Melfi. Proseguo sull’Ofantina che sembra divertirsi a contorcersi e ad intrecciarsi proprio ora che sono quasi arrivato a destinazione. Viaggio verso la Basilicata, dove la terra è ferma, dove è nullo qualsiasi movimento. Ho la sensazione vaga di attraversare un luogo afono, dove oltre il rombo del mio unico cilindro non si sente altro, e pare non si percepisca altro. Sembra che anche gli uccelli siano andati altrove. La prepotenza della natura è visibile anche a occhio nudo. Arrivo nei pressi di Conza che precede una spianata enorme, quasi sconfinata. La strada prosegue su un acquedotto altissimo e spacca in due il paesaggio. Le montagne sono alle mie spalle e davanti a me e non posso fare altro che tagliare questa pianura aperta e vergine.

Lascio le indicazioni e dimentico la cartina stradale, Cairano è lassù che mi guarda e mi aspetta ed io mi dirigo ostinato verso la cima. Cairano è un paese assorto che sta alla fine di una rupe. Cairano è già oltre la rupe e il paese comincia proprio dove incomincia il cielo, quando la strada termina nel vuoto della vallata. Cairano sorge su un braccio che fuoriesce dalla montagna, è un grappolo che spiove dall’alto, un girone dantesco in festa, un tramonto di pietra su cui è riflessa la luce del giorno, un ciuffo d’erba in controluce, un albero antico al centro del paese, una strada che sale e conduce dritto fino al grande portone del cielo. Cairano è un’isola sulla terraferma circondata da un’atmosfera di latte. Le parole scritte sono insidiose almeno quanto la salita imponente che accompagna la mia moto, esausta oramai, fino al paese. Più ci si avvicina e più ci si perde, eppure Cairano è lì, che aspetta di abbracciarti, come una madre timida ed impacciata che attende con gli occhi ma che non allunga mai le braccia per venirti a prendere.

Le persone che incontro sembrano gli abitanti di un luogo di confine, relegati all’esilio dell’altura assolata, nell’effluvio ebbro dei pomeriggi perduti a fissare il vuoto, in un silenzio compreso soltanto da chi lo vive ed è costretto a masticarlo ogni giorno. Mi sento fuori posto, come sempre. Che sono venuto a fare. Cairano è dall’altro lato, all’opposto, è in alto e bisogna cambiare la prospettiva dello sguardo per guardarla, benedire il sudore e il timore e alzare la testa. Bisogna avere molta sete per arrivare in questo splendido deserto. Mentre abbasso il cavalletto ricordo che devo fare anche benzina. Mi avvicino ad un gruppo di vecchietti a cui chiedo informazioni. Il benzinaio è vicino ma è verso Melfi ed è rischioso arrivarci. Oggi è solo Domenica.

ITINERARI INDIPENDENTI CONTRO IL DECRETO ALFANO


martedì 7 luglio 2009

Caserta

A coloro che hanno combattuto per tornare
A quelli che non ci hanno creduto e sono rimasti


Quando vado a riprendere la moto e taglio a piedi la città mi accorgo che si sono fatte quasi le nove di sera. Lo capisco perché in giro c’è poca gente. La calura sembra non voltarsi al richiamo insistito del notturno e pare volersi trattenere più del solito stasera. Non ha voglia di dare il cambio al refrigerio estivo che di solito si affaccia, almeno a quest’ora. I lavori al pavimento di porfido e pietra impediscono alle auto di circolare e la cappa di afa è un tetto troppo vicino alla mia testa, un peso tremendo che grava sul mio corpo, sulle mura spoglie intorno e sui palazzi inermi. La città è incubata nel silenzio preserale, accantonata in una dimensione ferma e ovattata, come un ascensore che non sale, rimasta bloccata sul pianerottolo del tempo. Intorno è come se tutto ciò non fosse, pur essendolo. Tutto è immobile e pesante, e sembra irreale, sudato e sospeso. Eppure qualcosa si muove, anche se a rilento.
E’ quasi notte ma potrebbe essere anche appena spuntato il giorno. Non siamo a Rotterdam. Caserta resta Caserta. Fuori al Bar un gruppo di persone sorseggia qualche birra attorno ad un tavolino mentre qualcuno ha preso una pizza da asporto e affretta il passo per guadagnare la frescura dell’androne e l’agio degli infradito e della poltrona in pelle. La libreria è ancora aperta, ma è vuota. Alzo gli occhi e mi accorgo per la prima volta che questa città è una sconosciuta incantevole e che la noto soltanto oggi, dopo aver attraversato i suoi profili per oltre trent’anni. Forse è la prima volta che non abbasso gli occhi, o probabilmente è la prima volta che i miei occhi vedono, non so dirlo. I palazzi del Corso richiamano le tinte di un tempo, dei palazzi di corte, ai tempi delle dame e di ricami. Le cornici delle finestre sono intarsiate di rivoli e merletti risvoltati in stile neoclassico. La cura dei particolari e l’attenzione per i colori non è roba da poco. Altro che città distratta, queste strade hanno annotato tutto, compreso il tempo che non si vede. Non torno a casa, mi addentro nella parte vecchia, nei vicoli con le mura sporche e desunte, dove qualche palazzo conserva gelosamente ancora qualche crepa, dove l’umidità si fa ostica e si respira sudore a stento. E’ il centro storico ed è come se all’improvviso, senza volerlo, si fosse riavvolta la macchina del tempo. Andare per i vicoli mi riporta alla memoria di questa città, alla sua storia mai urlata, ai bisbigli e alle sue paure nascoste nei volti di coloro non hanno mai amato questi posti perché non li hanno mai conosciuti e sono scappati troppo in fretta. Via San Carlo è rimasta intatta e si intravedono i cortili con le fontane di pietra ed il pavimento in ghiaia. I balconi sono orfani dei gerani, ma in compenso mantengono la struttura in ferro, quella di una volta. Nella piazza dove un tempo era il mercato dei bastioni oggi c’è la piazza del Mercato come a voler continuare la vocazione di quel luogo. Se da un lato la nuova costruzione riporta ad una moderna architettura berlinese dall’altro invece prorompe la casa del Fascio, un edificio di epoca mussoliniana che si erge maestoso nell’angolo a sinistra. Un’accozzaglia, un azzardo che altrove sarebbe arte mentre dalle parti nostre è solo indifferenza, sommersa dalla disattenzione e dal pregiudizio consumato. Nel sottosuolo della piazza resiste e brulica l’attività frenetica del mercato coperto.
Svolto verso quella che un tempo era Via Iolanda, oggi Via Mazzini, cuore storico della Città ed immagino cinquant’anni fa i commercianti eleganti baffuti e benvestiti che fumano sigari fuori alle botteghe protette dai teloni e dalle tende, sotto un cielo grigio azzurrognolo carico di afa e gonfio di umidità, molto simile, se non del tutto identico a quello di stasera.