lunedì 22 marzo 2010

Paesi Vesuviani


Un’immagine imponente di Gesù Cristo si erge all’improvviso sopra ad un cumulo di lamiere. L’auto è costretta a rallentare fino a fermarsi, davanti ad una delle tante bocche aperte dall’asfalto. Gli occhi obbligati si soffermano sull’icona pastello, l’espressione di misericordia ed il cuore cinto da una corona di spine. Ad Ottaviano sui cumuli di spazzatura germogliano i campi severi dell’agricoltura incolore. il Vesuvio è una distesa di sale verde, troppo spesso interrotta da gemme variopinte di cemento impastato. A Terzigno non si incontrano mai due palazzi uguali, mentre gli infissi riportano colori alterati e sbiaditi, dal bronzo al rosso opaco. San Giuseppe Vesuviano, Boscotrecase, Ottaviano, Pompei sono l’esplosione del ventre gonfio e slabbrato di Napoli. Il dorso della mano è un manto duro di vene ingrossate, una patina callosa, mentre il palmo è chiuso in un pugno neanche troppo stretto. L’accento è rotondo ed affilato, accompagnato di solito da un sorriso smorzato, come di chi nasconde i pochi denti tra le labbra. I bar hanno tutti una sala in fondo chiusa a chiave. Qui la gente sa che una parola è già tanto. In questi paesi non esiste un centro e le strade hanno tutte quante lo stesso nome. La terra di Raffaele Cutolo è stata ceduta da poco ai cinesi, che sono arrivati con le valigie piene di soldi e con il lavoro che non costa nulla. Adesso i figli dei magliari piangono perché qualcun altro comanda a casa loro. San Giuseppe Vesuviano è una strada dritta e lunga, che non finisce mai. Tutta uguale. Una filiera di jeans e tessuti scadenti disposti con ordine, allineati ed affiliati. Le sagome dei manichini sono le anime del falso e del contraffatto, eppure, da queste parti questi corpi bianchi e sagomati rappresentano ancora la vita grottesca che resiste e che non muore.

domenica 14 marzo 2010

febbre


Le cime del Matese sono di fronte, scaltre e supine, ammaliate nei loro busti eretti, avvolte in rauchi mantelli di seta bianca, soffice e linda, costrette in quegli abiti lucenti che di solito indossano soltanto nei rigidi mesi invernali. Ruviano e Alvignano, Dragoni e Baia e Latina, Roccaromana e Pietramelara, infine Riardo sono un manipolo di paesi che si affacciano con clemenza dalla rocca. Sembrano scappati n fretta da un alluvione, evasi, riparati e dolcemente aggrappati alla crosta, sospesi e smarriti come protuberanze della rupe estrema, scorbutiche evanescenze introverse della terra.
Mi sorprendono le immagini di sempre, sempre uguali a se stesse eppure così rinnovate, filtrate da una luce differente. Sono le uniche capaci di restituirmi quella febbre e quella sete, quel pianto di un bambino intruso che non riesco a trattenere, che non sono più in grado di ricavare da altri luoghi: gli intonaci fatiscenti corrosi dal muschio, i luminari decrepiti in ferro battuto, una donna che trattiene a malapena uno scialle di lana sulle sue spalle smunte, che si lancia nel freddo ventoso per prendere qualche ceppo di arbusto nel deposito, la legna fresca e disordinata davanti alle case, i muri in puro tufo vergine che cingono ogni portone, la fragranza della fuliggine della cenere. Alcuni bar hanno già chiuso, mentre ovunque un profumo di freddo grigio e coperto, un odore acre di ruggine e di serrande abbassate. Camminano a testa bassa, con il petto gonfio che non riesce a sputare un respiro, il rantolo che sfugge e risale, un imbarazzo intimo che riaffiora, sfiora e fiorisce negli occhi che celano una grave mancanza, una perdita mai cancellata, il lutto impresso sul volto scavato e asciutto, che risale attraverso gli spigoli delle ossa del viso. Il rispetto della memoria inciso nel silenzio e nell’andatura lenta. Ci hanno detto che le cose da queste parti valgono poco, qualche moneta appena o al massimo. E’ soltanto avanzo del giorno che se n’è andato.