sabato 30 marzo 2013

Ferdinando



La terra è la terra e la terra di questi luoghi si sbriciola, non brucia e non sorride, ma arranca e si consuma su un filo che si scioglie, non appena sbiadisce il sole. Il pallore della sera è riflesso sui vetri appannati che oscurano l’esterno, nell’aria gonfia e gravida di una pioggia attesa, ed è cosparso dei fumi dei tramonti tersi, disperso in un orizzonte di sale, piatto e sfinito, che tarda, tarda senza avvisare. I Camini impastano fuoco, pestano legna, tritano tizzoni ardenti ed infine sputano fumo dai pinnacoli sporchi di carbone in cima, ricacciando la nebbia disposta a bancali bianchi e ordinati. Il fuoco risorge e sventola come un drappo bagnato e strappa a tratti come il vento, silenzioso e severo, teso e duro come le lenzuola tirate su un letto di primavera arrivata davvero troppo presto. Il barlume marcio della muffa è la voce che acceca e irradia il cuore delle case, il bagliore che tace ed illumina le ombre di chi se n’è andato, le crepe dei volti che trasudano sorrisi tristi di chi rincorre la notte un giorno si e l’altro pure, le preghiere assorte bestemmiate in silenzio.
Nella casa di Ferdinando c’è un aroma intenso di brodo di pollo che si mescola a quello dei broccoli lessati, lasciati in solitudine a bollire sul fuoco. E’ un’atmosfera rappresa e spessa, che brilla opaca nell’aria satolla, intrisa di umidità e di vapore, che ricopre ogni cosa, dalle pentole alle sedie, alla stregua di una patina grigia. Il suono scomposto della bollitura che proviene dalla cucina è una nenia permanente che non conosce acuti, ma che basta ad alterare il silenzio assordante del primo mattino. Ferdinando è un uomo di mezza età e vive con sua moglie, una donna galiziana trapiantata da queste parti per amore. Ferdinando non lavora più, vive della sua pensione che ha maturato in Svizzera, dove è stato a lavorare per tanti anni, prima come imbianchino e poi come operaio di una fabbrica di vernici, infine in una falegnameria. Oggi è uguale a ieri e Fortunato siede sempre su una panchina di legno scorticata, e divora il tempo pensando al suo paese che non riconosce più, guardando la fontana che piscia acqua sempre con lo stesso spruzzo; pensa alla Svizzera che lo ha tradito perché gli ha portato via i suoi figli e guarda le sue mani per scorgere nei calli e nelle venature incise nei palmi i ricordi del tempo in cui aveva la forza, quando si alzava la mattina presto con ancora addosso i vestiti del giorno prima. Osserva il muschio che proviene da sotto terra che si arrampica sulle mura di tufo e i ciuffi d’erba che scavalcano i marciapiedi di pietra, sbavano a ciocche e tacciono per sempre e non si muovono più.

domenica 3 febbraio 2013

Il vino mischio


E’ il primo gelo di Gennaio ma il sole è audace e terso. Il freddo si attacca sui jeans tirati e lo spiffero di aria fredda che trapela attraverso l’abbondante fessura del casco gela la pelle, brucia la faccia. Spesso mi inoltro nelle mie zone, ora che ho deciso di abitarle, salgo sulle colline di Villa S. Croce o di San Giovanni e Paolo e vado a trovare qualche esule fattore fuggiasco e qualche contadino ramingo ed orgoglioso. La terra è ricoperta di smalto d’olio dorato e la pietra è bagnata di ambra di muschio e di corone di salice. Intorno una vegetazione distratta, sparsa e arruffata, annovera alberi di ogni specie. I tronchi dei pini grondano resina in abbondanza e le cime dei cipressi spavaldi fanno da guardia alle case. Ogni tanto si scorge un bouquet di limoni oppure i fusti tozzi e innervati degli olivi, o ancora i rami secchi dei ciliegi e dei castagni. Ovunque è un sordo profumo ridondante di una natura ripiegata e sola. I panni sono appesi ai fili e stesi all’aria e la legna ordinata a blocchi; ci sono galline e le mucche nella stalla, mentre i gatti sostano sulla porta di casa. Sono le due. Qualcuno bisbiglia dalla finestra e dall’interno accende la luce vicino alle scale, più per abitudine che per necessità. Esce una donna di mezza età e subito dopo un’altra molto più anziana, avrà avuto cent’anni e oltre, ma è vispa e scattante. Sdentata, barbuta, sorridente, biascica di ottima lena parole che hanno un suono sordo ed afono che non comprendo. Ha la pelle come la corteccia degli ulivi ed è imbacuccata con uno scialle, indossa calzini di lana spessi e maglioni pesanti a strati. Le do un pizzico sulla gota rugosa e pelosa e la auguro di campare altri cento anni. La donna di mezza età mi spiega che loro hanno vino, olio, uova, legna e frutta ma la carne la fanno solo per loro. Intanto mi accompagnano e mi offrono del vino che prometto di tornare a comprare. Con una spallata vigorosa la vecchietta ultranovantenne spalanca la porta pesante della cantina. Tracanno d’un fiato tre bicchieri di vino, Pallagrello, Barbera e anche il mischio, il vino dei contadini che si faceva una volta, con le uve avanzate a fine raccolto. La vecchietta accompagna le chiacchiere della donna più giovane, che mi racconta del figlio carabiniere e della figlia che ha aperto prima un salumificio e poi un supermercato a Faicchio. Butto giù il bicchiere di mischio tutto d’uno sorso mentre la vecchietta è intenta a raccogliere i cocci di un bicchiere di vetro che si è rotto. Quando esco fuori si è fatto più buio. Saluto la donna e la vecchietta novantenne, che continua a sorridermi e a parlare una lingua che somiglia più al frasario melodico e cadenzato di un bambino molto piccolo. Le sorrido e le dico di si. Sulla strada del ritorno cala la nebbia e con essa marcia la notte, mentre accelera il freddo. Su un’insegna sbiadita sulla sinistra c’è scritto “Gigi & Katy alimentari”. 

sabato 14 gennaio 2012

Anna e Domenico


Anna e Domenico vivono nella loro casa nel centro del paese di Villa Santa Croce, poche anime nella desolazione, alle pendici del Monte Maggiore. Di solito mi spingo lassù quando mi serve olio, uova, pomodori per le conserve o patate. Sono quasi le cinque della sera, e fuori è pioggia mescolata a notte e a neve. Domenico subito mi sorride come di chi si ricorda, Anna ci sottrae al porticato ventoso e ci spinge nel salone della casa, un ambiente riscaldato dalla vecchia stufa a legna. Prendiamo finalmente calore e Caterina chiede delle foto dei nipoti appese al muro. Domenico si emoziona e corre a prenderle un ritratto di lui quando era giovane, per farci vedere che il nipote gli somiglia. E’ un contadino sordo e sorridente, ha il berretto ancora in testa e una maglia abbottonata fino al collo, stretta sotto al maglione. La pelle raggrinzita come le patate raccolte da tempo, gli occhi asciutti e senza rimorsi quando parla dei suoi figli o di sua moglie. Tu sei fidanzato? Bravo non ti sposare subito, Io sono per la convivenza. Anna vuole che assaggi i broccoli che ha preparato per cena al marito. Accetto e lei mi porta una fetta di pane, un piatto di verdura ed un bicchiere di vino. Fai merenda con noi, mi dice, mentre serve a caterina i cioccolattini. Domenico continua a parlare di figli e di matrimoni mentre io mi lecco le dita. Anna comprende il mio apprezzamento e mi porta un’altra porzione di broccoli. Domenico ricorda i parti di Anna, quando sono venute al mondo le figlie femmine, avvenuti in casa e senza nessun medico. Solo per l’ultimo siamo andati in clinica. Eravamo in chiesa e Anna mi dice, Domè si sono rotte le acque. Così abbiamo aspettato la fine della messa, siamo tornati prima a casa, abbiamo mangiato e poi siamo andati in ospedale. Quando siamo arrivati ci hanno chiesto chi era il nostro dottore, ed io gli ho detto, “Boh, chi ci sta”.Angelo oggi ha 34 anni, ha un figlio e abita a Nola. Ha trovato un lavoro a Mantova, ha avuto l’incarico di una supplenza di tre mesi ed è partito con la sua famiglia, con la speranza di trovare un posto fisso, tra lui e la moglie. Una volta quando ci si lasciava non ci si salutava più, oggi invece non è così e secondo me è giusto. Forse una volta eravamo troppo maligni. Se stai con una persona per tanti anni non puoi non salutarla più anche se io credo che il desiderio resta sempre. Una volta i matrimoni li decidevano i genitori. Io quando ero ragazzo avevo paura che i miei genitori non mi facevano sposare ad Anna, perché Anna non aveva terre, non aveva un corredo, era molto povera. Un giorno mio zio Pasqualino mi chiese se io andavo appresso ad Anna ed io gli dissi la verità. Allora lui mi disse di pigliarmela, perché quello che non teneva lei me lo dava lui. Zio Pasqualino non aveva figli e mi stava dicendo che le sue terre me le avrebbe date a me e che dovevo dire a mio padre che potevo fare a meno della dote di Anna.Il racconto di Domenico non si scompone, gli dico che i broccoli sono ottimi ed Anna annuisce contenta. Mi dicono che hanno uova e patate, usciamo a prenderli e chiedo a Domenico di mostrarmi l’orto, come sempre. La capra libera un suono che sembra un lamento. Vuole ammogliarsi, te vuò mangià dui cachis? Rientriamo in casa e Domenico mi racconta che a lui lo chiamavano u pucurar, perché prima di essere contadino era pastore ed il suo unico collega nel paese era il prete, anche lui impegnato a dirigere il suo gregge. Don Giulio mi diceva sempre…devi fare come me, le pecore le devi picchiare ogni tanto, ma io non ci sono mai riuscito, le mie pecore non le ho mai toccate ma ci sapevo parlare e per questo mi sono sempre sentito un pastore più bravo di Don Giulio.

domenica 12 giugno 2011

Scorci

il Lungomare è ventoso, cariato come quello dell'Avana; Lo presidiano l'inevitabile Garibaldi, che qui troneggia su un leone bronzo e il busto defilato di tale Nunzio Nasi, voluto da Trapani fedelissima. Comincia il grande Sud: cani liberi, una farmacia ad ogni angolo, caldo tunisino (...)


Fa caldo, il pietrisco della massicciata lavica scricchiola come zollette di zucchero sotto gli scarponi. Passiamo sotto un piccolo ponte a schiena d'asino, dove ci travolge un istinto irresistibile. Arrampicarsi fin lassù tra i rovi, montare sul parapetto e fare pipì sulla ferrovia, in bilico sul più bel paesaggio del mondo. Atto liberatorio? Rituale iniziatico? No quella è roba per intellettuali. Noi semplicemente segniamo il territorio. Come i Cani.

(L'Italia in seconda classe - Paolo Rumiz)

domenica 23 gennaio 2011

Tarlabasi (Istanbul Nord)

A Paolo e Vittorio, vicini nonostante la lontananza


Da Taksim imbocco istiklal kaddesi fino a tunel. Conosco la strada soprattutto se la immagino. Scendo a Galata e mi affaccio dalle spalle dei pescatori in riga; sbircio dalle loro spalle in qualche caffè, prima di arrivare al mercato del pesce, prima di guardare il Bosforo che si specchia nel mio volto contrito e poco distratto. I pinnacoli dei minareti avvolgono le luci della sera laggiù, sotto ai merletti intarsiati del tokapi, e la città è più che mai ammantata di grigio e di foschia. Le navi nere attraversano il corridoio d’acqua che le conduce dritto in Asia. L’inverno già si affaccia e le lampadine del mercato del pesce di Karakoy evaporano una luce giallognola e fioca, decisamente più soffusa. Le cataste impilate conservano i resti dei pesci venduti e puliti, mentre i fumi dei palamuk arrostiti dei Balik si alzano sospinti dal vento. La voce dei pescatori canta l’ennesimo ribasso del prezzo ed incita all’ultimo affare. A quest’ora il pesce si vende a pezzi. Attraverso il ponte che taglia il corno. Gli uomini hanno le mani in tasca e masticano un’attesa speranzosa. Le canne da pesca stanno ferme e dritte sulla balconata e resistono ancora agli strappi del vento. Sono nell’area dei bazar e delle moschee. Giro nei mercati delle spezie ed infine svolto a destra verso i luoghi sacri di sultanahment. Finalmente giungo all’Università ed alle pendici di Fatih, dove le moschee si confondono con le bancarelle della frutta e delle scarpe false, mentre gli uomini sostano nei caffè e nei circoli nei pressi dell’acquedotto Valente, sorseggiando cay turco e leggendo i giornali sportivi. Donne non ce ne sono in giro. Ha ragione Pamuk, la tristezza di questa città è una patina che riveste ogni cosa, una pellicola che incarta ogni angolo, dalle guglie dei luoghi sacri ai fuochi accesi nei quartieri poveri. A Tarlabasi c’è una sede della polizia, i militari in bella posa e un blindato in esposizione museale. Vicoli stretti, rifiuti accatastati, fogne aperte e tanta gente per strada. Qui nessuno parla inglese eppure molti si fanno capire con gli occhi, coi gesti delle mani. Sulla facciata di un palazzo c’è un grande manifesto che raffigura un poliziotto che accarezza una bambina. Kol ganat geret. Mi prendo cura di te. Qui un piatto di pilav costa davvero poco mentre le kofte sono più grandi e più saporite. Rumeni, Curdi e nordafricani, ma più di tutti Tarlabasi è il quartiere dei bambini, che girano nei vicoli da soli, e camminano senza dare la mano alle madri, scalzi o con scarpe molto più grandi dei loro piedi. Hanno le facce sporche come il carbone, denti bianchi e gote sbiadite. Fanno giochi pericolosi, accendono fuochi, corrono e sorridono. Si lasciano fotografare e un attimo dopo lo scatto della mia “compatta” corrono a vedere nel riquadro della camera i loro volti, prima di esplodere in una fragorosa risata. A Tarlabasi non ci sono donne con lo chador. Hanno tutte un fazzoletto avvolto in testa e almeno un dente d’oro in bocca. Hanno nei tatuati sul viso e talvolta vistosi disegni sbiaditi sulle braccia. Alcune vendono i fiori a taksim, altre lavorano di notte. Quelle che mi riconoscono mi salutano con un occhiolino caloroso. I panni stesi si rincorrono sui fili come i bambini scalzi per la strada. I tappeti vengono lasciati appesi per giornate intere al sole, tra le ombre di palazzi dalle tinte pastello sconclusionate e tutte diverse in un delirio di sporcizia e rifiuti ammassati. Mi siedo e mi mangio un pezzo di pane caldo ancora fumante, appena partorito dal forno nella piazzetta. Al mio fianco un uomo ben vestito e con le scarpe lucidate ha tutta l’aria di essere uno che conta da queste parti. Ordina ad un bambino che gironzola in bici di comprargli le sigarette. Quando il bambino arriva gli fa un cenno come a dire di tenersi il resto. Dal Bar si fa portare 2 cay turchi, uno per lui l’altro per me. Lo ringrazio ma lui non risponde e guarda nel vuoto continuando a fumare. Inshallah. Se Dio vuole. Onur pronuncia questa parola soffiando con vigore nelle mani chiuse a forma di pugno e con gli occhi rivolti al cielo, quando gli dico che mi piacerebbe visitare lo stato del Kurdistan un giorno. Istklal Caddesi è il solito sciame umano, un fiume freddo di gente che si incammina con il capo chino, ad una velocità impressionante e senza mai abbandonarsi ad un sguardo o ad una smorfia del viso. Onur mi chiede se ho l’accendino e solo quando capisce che sono italiano mi rivela sua identità. Tra stranieri ci si capisce. I curdi temono solo i turchi, e si sentono a casa con gli stranieri. Perché sono ancora stranieri, anche se vivono a casa loro.

giovedì 30 dicembre 2010

Cartolina da Belgrado (Paolo Rumiz)



(Tratto da "E' Oriente" di P. Rumiz)

Pranziamo su una nave–ristorante, sotto la fortezza di kalemegdan. Il cuoco prende un pesce enorme, vivo, da una vasca, lo taglia in due con un colpo secco, la coda da una parte, la testa dall’altra, lo sventra, lo pulisce e butta sulla brace le due parti ancora pulsanti di vita indipendente. Ljubomir non fa una piega. Guardo fuori il fiume che rallenta, come nauseato, stanco di produrre storia. Sembra gli manchi la forza necessaria per passare i Carpazi e raggiungere il delta.

Sulla tolda di kalemegdan, la fortezza alta come un transatlantico sulla pianura, c’è il solito vecchio mondo di balordi, ma sempre più stinti, sempre più poveri. Rade, l’eroe della guerra di Liberazione con la divisa grigia e i baffi troppo gialli. Tanja sdentata che vende popcorn, Lazar il travestito, la vecchia Ljubica con i suoi centrini sul prato, Frane il mendicante, Dejan e Slavomir che suonano fisarmonica e violino. “Ballano in tondo, “ mi scrisse di loro Fabio, un amico, “per gli anziani e i giovani, per i loro morti e i figli mai avuti, per i cani randagi e le sirene della polizia, per i morti di fame e i mafiosi della guerra e della pace.”

venerdì 17 dicembre 2010

Marsiglia - Napoli solo ritorno



(di Andrea Bottalico - Tratto da Napoli Monitor)

Nella piazza di Porta d’Aix le persone si affollano in mezzo alle cianfrusaglie riciclate dai rom vicino ai cassonetti, e gli ambulanti vendono stecche di sigarette sussurrando ai passanti le marche di cui dispongono. Questa è l’ultima immagine della città, voglio stamparla bene in testa prima di ritornare a casa, tra le facce note e familiari.

La persona che ieri ha risposto al telefono era scocciata: un arabo dall’accento francese peggiore del mio che soltanto dopo avere insistito parecchio m’ha detto sbuffando di farmi trovare entro le sette in una strada nei pressi del mercato. Non c’è modo di sapere in anticipo se il pullman partirà o meno. Bisogna telefonare a un numero per rimediare qualche informazione e ritrovarsi al posto stabilito un’ora prima della partenza. Se trovi qualcuno bene, altrimenti se ne parla la domenica successiva. Da quanto ho capito, una sorta di ditta anomala mette a disposizione un pullman abusivo e due autisti ai commercianti che scendono a Napoli ogni settimana a mani vacanti, e salgono verso Marsiglia carichi di merce falsa.

Il pullman arriva, parcheggia in malo modo e cominciano a caricarlo. Completamente bianco, per niente affidabile, senza il nome di una qualsivoglia ditta sul fianco, con gli adesivi delle varie Madonne attaccate sul vetro e un rosario di legno appeso allo specchietto. Gli autisti escono dal portello laterale rattoppato con il nastro isolante. Quattro arabi arrivano di corsa, uno di loro dice di chiamarsi Mohamed, l’altro si chiama Alì e sembra nervoso. Poi ci sono Abdul e Ibrahim. Una signora di mezza età prende subito posto, dice di andare a Napoli una volta al mese per fare la spesa.

Jeans, giubbotti, scarpe, borse, occhiali da sole, camicie, orologi, mutande. Questi commercianti hanno capito dove si produce il falso d’autore. Pure i soldi falsi, ma da quando la guardia di finanza ha scoperto un laboratorio a Giugliano in cui falsificavano dinari algerini è diventato pericoloso. In ogni modo il pullman al ritorno è stracolmo di cartoni imballati a mestiere e il viaggio te lo fai in piedi con l’ansia addosso. I commercianti comprano nelle fabbriche clandestine di Napoli e dintorni per poi rivendere nei negozi del centro di Marsiglia. Per evitare i controlli scaricano la merce in altre automobili prima della frontiera, anche se la dogana francese non si mangia una risata e in passato il pullman l’hanno rivoltato da cima a fondo. L’ultimo controllo della polizia qualche mese fa: cinquemila euro di verbale e una caterva di cinture sequestrate.

In tutto questo gli autisti sono compaesani. Non appena entriamo in autostrada, Alì raccoglie i soldi e riprende a contarli insieme agli altri che teneva in mano prima di pagarli, ma quelli iniziano a discutere sul prezzo perché durante il viaggio d’andata ci sono state delle complicazioni. «Ma quali complicazioni?», fa Alì. Duecentocinquanta euro a testa e non si discute. Uno dei due autisti controlla attentamente ogni banconota passandoci l’unghia al centro. «Tu li vedi a questi? – dice indicandomeli con un cenno – Loro mandano avanti l’economia».

Si chiama Giggino. Dopo il segno della croce s’è seduto controvoglia al posto di guida, con gli occhi ancora abbuffati dal sonno scomodo e il viaggio d’andata sulla schiena. Altri pensieri gli passano per la testa, a Giggino: problemi irrisolti, cambiali insolvibili, l’amante ucraina da mantenere, ragion per cui se ne frega degli intrallazzi che fanno i contrabbandieri. «A me basta che mi pagano». Il suo aiutante spiega che ogni tanto è lui a fare la dogana ma il tutto finisce con qualche pezzo sottratto per il disturbo arrecato a un povero cristo sottopagato qual è.

Giggino invece non vuole saperne niente eppure li invidia senza darlo a vedere. Meglio stare al posto di quegli arabi votati al commercio informale piuttosto che guidare un pullman sfondato per tutta la notte, stressato al pensiero dei guai, sotto gli ordini di un certo Rafele che chiama al telefono per sapere se siamo partiti in orario. E in più si tratta del suo secondo lavoro – a nero – poiché ufficialmente Giggino lavora nella Cumana, e dovrà perfino montare il turno di mattina una volta arrivati. Gli chiedo come trascorre il tempo libero e lui risponde stizzito: «Ma quale tempo libero!». Di tanto in tanto gli dobbiamo ricordare di guardare avanti, di rallentare, l’altro gli grida all’improvviso, Giggì accort’, e lui s’innervosisce prima di prendersela con gli algerini là dietro, sui quali ricadono tutte le colpe delle sue eterne sconfitte.

Dal fondo del pullman, i ragazzi algerini guardano con rispettoso sospetto e ci rivolgono la parola soltanto se interpellati. Restano seduti a fumare, ascoltano musica rai, cercano di sviare i discorsi sui loro viaggi e sorridendo ostinatamente fingono di non capire le domande.

Giggino è convinto che sia stato quel “figlio di latrina” di Ibrahim a rubargli i soldi dal borsello in uno dei viaggi precedenti. È schivo come gli altri e la sua faccia credo di averla già vista da qualche parte. Dalle tasche caccia dei foglietti con sopra scritti indirizzi e numeri di telefono e i soldi li porta arrotolati nei calzini. Conosce Napoli meglio di tutti, Ibrahim, a differenza dei turisti che scappano via indignati da piazza Garibaldi. Soltanto Abdul sembra fidarsi, ma parla poco il francese e tanto meno l’italiano. Riusciamo ad abbozzare una conversazione nel dormiveglia, poiché un modo per restare svegli bisogna pur trovarlo, e la guida sportiva di Giggino non ci fa stare per niente quieti. Abdul è emigrato da poco, in passato ha lavorato nei campi. Spera di guadagnare un po’, mettere su famiglia e con l’aiuto di Allah ritornare al suo bled tagliato fuori dal mondo per piantare alberi da frutto. Alla fine ci ritroviamo ad ascoltare le canzoni di Dahmane El Arrachi.

Giggino non riesce a sopportare l’idea di dover lavorare per degli stranieri. Alì rifiuta di assaggiare il suo panino col capocollo e lui si prende collera, e quando cercano di spiegargli che non mangiano il maiale a lui non gli pare proprio possibile una cosa del genere. Forse Giggino disprezza quei ragazzi perché non ha il coraggio di disprezzare se stesso, eppure quello è stato l’unico sentimento veramente tangibile in tutto il viaggio, un livore assoluto accumulato nel tempo, facile da intuire perché familiare come le facce note che mi appresto a rivedere. Giggino ha continuato a guidare il pullman, azzardando sorpassi agli autotreni. Non appena arrivati, ha risposto a Rafele che ha richiamato per sapere se era andato tutto liscio, poi con un gesto di stizza ci ha mandati tutti a fanculo e se n’è andato di corsa a montare il turno di mattina. Alì e Abdul, intanto, hanno raccolto le valigie insieme agli altri, e trascinandole si sono avviati con quel ghigno smaliziato verso il mercato di porta Nolana.