martedì 25 maggio 2010

Torre del Greco





Rampe di scaloni ampi, sudici e polverosi conducono il cratere direttamente al mare, lo accompagnano per mano. Un vociare plateale e sgualcito accoglie i pescatori che fanno ritorno dalle acque. Hanno sete e poca voglia di parlare. Camminano senza guardare, a testa bassa imprecano, biascicando qualche suono incomprensibile, ed infine maledicono con decisione il dio con le braccia aperte che si sporge dalla banchina dirimpetto. Gli uomini forgiati dal mare sono aspri e taciturni, notturni anche di giorno, silenziosi ed impavidi. Esuli in patria. Smarriti. Infine sostano sugli scogli, si abbandonano spaparanzati e stremati al sole cocente di metà giornata, fumano sigarette prima di addormentarsi sotto i cappelli di paglia sfilacciati e le barbe bianche ed incolte. Non parlano e non guardano. Il giorno non è ancora sceso, ma per loro è già notte fonda. I loro corpi salutano la vita per una manciata di minuti mentre dai barconi si rovesciano le reti gravide di pesce fresco. I frutti del mare sono ancora stipati nelle pance delle paranze che stanno arrivando alla spicciolata nel porto di Torre del Greco e si affollano in fila sulla banchina. Più avanti un rosario di lampadine appese riflette una luce fioca e giallognola sui marmi bianchi e lucidi appena lavati dal getto freddo delle pompe. Di fianco cataste di cassette di polistirolo immobili ed impilate. Il mercato attende di entrare in scena, tra resti di fabbricati in frantumi, scheletri di navi in riparazione e depositi fumosi e maleodoranti. Tutto intorno è un olezzo sparso di catrame e merluzzo, di olio e nafta, di cozze e di vernice. Il porto mostra la sua pelle salmastra, il suo volto povero ed emaciato, sporco e smunto, sommerso di pneumatici, monnezza di ogni genere e carte e frigoriferi vecchi ammassati e ferro vecchio.
Intanto il flutto continua a scheggiare la pietra disposta casualmente a blocchi e sbriciola il sale in effluvio,rendendolo vapore e polvere. 'E criature impavidamente si tuffano e sguazzano nel mare nero, alcune fanno le cozze sugli scogli.
I pesci del cielo salutano il ritorno delle sciabiche su cui intanto si preparano i nodi per il giorno successivo. E’ un fremito frettoloso di reti riavvolte da mani callose, di sguardi contriti dalla stanchezza, di corde umide e limacciose riordinate in fretta e disposte nelle casse. Il cane stravaccato a prua, stupefatto dal sole, giace semimorente su un letto di reti ammucchiate. A sera il sale corrode la pelle e le bandiere di prua strappano il vento senza timore. Il mare è aperto e scompigliato, la sabbia è nera e buia, il vento ammaina le acque. I pescatori fanno lentamente ritorno a casa con le buste piene di calamari, polpi e seppie. Il sipario del mercato cala, la notte è venuta a prenderli ancora una volta. I lupi hanno riavvolto gli ami, tirato via le canne ed i secchi e conservato per il giorno successivo il pane duro che servirà ad imbrogliare i pesci ancora una volta.

domenica 2 maggio 2010

Gli occhi di Maria e la morte del pollo

Giuseppina governa la piccola parte di una masseria, che si affaccia sul ciglio della strada che porta a Limatola, prima della pompa di benzina Api. Mi aspetta già da un pezzo e quando arrivo mi rimprovera con il suo sguardo metà sorriso metà durezza. Sembra uscita da un film di Ciprì e Maresco. E’ un personaggio vivace, simpatico e poi parla sempre e solo di soldi. Più che in campagna voi dovevate lavorare in banca, le dico sempre, e lei si mette a ridere e fa come per darmi uno schiaffo.

Chi ti cucina il pollo? mi chiede perentoria. Giuseppina ha cinque figlie, tutte non sposate e mi racconta che vivono con lei, tranne Concetta che sta a roma e lavora, a Tivoli anzi mi dice, non si ricorda bene e non sa neanche cosa fa, credo robb’ e contabilità, cuncett ten e scol’. In campagna con lei c’è Maria ed insieme portano avanti tutta la baracca. Maria ha le spalle strette di chi vuole dare meno fastidio possibile, lavora duro ed ha il fare risoluto di chi ha troppa fretta di uscire di scena, semmai addirittura scomparire. E’ una madonna timida, il viso emaciato e smunto, lo sguardo chino e i capelli tirati e stretti sotto un cappellino liso e lercio che dona risalto ai suoi grandi occhi color nocciola. Secondo me è bellissima ma Maria è troppo interessata a ripulirsi l’auto. Dico a Giuseppina che voglio fare un film su di lei, voglio che lei mi racconti la sua vita davanti ad un bicchiere di vino, che una domenica mio porto la telecamera. Lei mi guarda con tono buffo e lusingato, mi fissa con un sorriso furbo ed attento, mi guarda bene e poi mi manda simpaticamente a quel paese. Le chiedo le solite uova mentre mi aggiro tra i campi. Le uove le deve prendere Maria. Nel frattempo versa dell’acqua in una pentola e la lascia bollire sul fuoco. Prima di fare quello per cui sono venuto faccio visita alle bestie. Nella masseria ci sono mucche, anatre capre conigli vitellini e polli. Le chiedo se qualche domenica posso darle una mano visto che lei deve mettere ancora i pomodori. Mi dice che io non sono buono per la terra che non ho i calli in mezzo alle mani. Chi ti cucina il pollo? Gli occhi azzurri, che emergono sotto una patina di rughe, tradiscono il ghigno beffardo e arguto di Giuseppina. Lei mi ripete che ha cinque figlie femmine, con la stessa aria di un venditore di tappeti iraniani.

Mi mostra un bel pollo, giovane e cresciuto. Io lo voglio più piccolo e ne scelgo un altro, ma lei mi vuole dare quello più grande. E così lo insegue, prima lo costringe all’angolo del pollaio, poi lo acciuffa e lo capovolge, tenendolo per le zampe ben strette. Il pollo è immobile sulla bilancia. Tre chilogrammi e mezzo. Si allontana ma prima si procura un coltello bianco. Giusto il tempo di fare qualche passo e taglia con un colpo secco la gola del pennuto. Per un attimo si ferma il tempo e sembra accadere il nulla. Poi il pollo comincia a sbattersi e a dare colpi, come un’anima impazzita dal dolore che devasta e si abbatte contro la gabbia del corpo. La lotta agonica dura una decina di secondi scarsi, alla fine il pollo si arrende. E’ morto. Giuseppina lo prende per il collo e lo cala nel secchio di acqua calda. Non si dovrebbe vedere morire un pollo, dice, mentre immerge il corpo del pennuto nel contenitore. Giuseppina ripone l’animale sul tavolo bianco e comincia a spennarlo, fino a renderlo completamente bianco. Mette da parte stomaco zampe la testa del pollo. Queste sono per il brodo. Le dico che non mi interessano e può darle anche ai gatti.

Restiamo intenti a guardare la macellazione del pollo, senza provare scrupolo alcuno. Le zampe del pollo ai gatti e il ritorno di Maria con le uove. Faccio per guardare i suoi occhi e lei fa a tempo a regalarmi le spalle e senza dire una parola ritorna ai campi.