lunedì 2 novembre 2009

Sicilia in disparte


Valderice per un istante mi riconduce all’entroterra toscano, ad un’approssimazione dell’Appennino, invece è semplicemente il nome di uno dei tanti paesi dispersi e sciolti nella calura della paesologia trapanese, nel sud profondo ed estremo della Sicilia ghiacciata e arida. La strada che conduce alla città di Trapani somiglia ad un imbuto, un ingorgo reticolato di flutti traversi e di ingressi che conducono in luoghi mescolati e solitari, di passaggio. Questa Sicilia è il crocevia di un’algebra paesaggistica che si dipana attraverso questo cono di terra che sporge verso l’Africa e verso il vuoto; è qui che le uve sono lasciate appassire oltre gli steccati della polvere, e la montagna è un crampo della fame che punge al centro dello stomaco, una fitta irrequieta e dolorosa che si arrende soltanto alla fine.
Al confine con le terre del Marsala Superiore la lingua di mare lecca i contorni delle case che sono protesi coraggiosamente in avanti, mentre le dune di sale luccicano di un brillio lineare, quasi umido; l’asfalto sfuma nella polvere incolore a causa dell’ombra cocente e le montagne ostentano lo sfregio inferto dal marmo scavato senza troppi scrupoli. Il paesaggio rammenta la schiena irrigidita di una donna, ma anche un deserto colorato a tratti, uno spazio brullo ed arido dal colore rossiccio secco su cui pedala forte qualsiasi fantasia ventilata e afosa. Sul fianco curvo che strapiomba direttamente a mare, i crostoni aguzzi delle rocce accompagnano la strada in un tornante che avvinghia tutta la provincia di Trapani. San Vito lo Capo è l’ultimo paese prima del nulla, poichè oltre abita solo la bocca del mare nero.
Il signor Culicchia continua a spalare fango e a ricacciare l’acqua che ha invaso la sua pasticceria. Tutti giurano che non veniva giù tutta questa pioggia dal 76’. La città è provata ed ha tolto il cappello. Ora ha un aspetto davvero surreale; è grigia e bella, sudata e vinta. Provata. Affranta. Le stradine del centro sono eleganti e composte, come anche le chiese, l’orologio e la cattedrale, mentre il mare, nervoso ed eccitato, continua a picchiare in modo ossessivo ai lati, sulle banchine e sulla sabbia, come un pugile che prima di sferrare l’attacco al volto continua a colpire sui fianchi. Lontano dal centro restano i sorrisi della gente ed un porto piccolo, malconcio e sporco.
Selinunte e Segesta. A Nuova Gibellina invece la Sicilia ha il volto di vetro, una maschera trasparente di profumo bianco, dal fascino triste, carica di una tonalità accesa e forte che scompiglia coraggiosamente il tono di questa terra, così grave e lontano. Nuova Gibellina è un’altra donna, seduta su un marciapiede che si tira la gonna fin su le ginocchia. Il Belice è un deserto di dolore, rivestito dalla brina di un silenzio apicale ed incolore, corrotto dal cemento ruvido e poroso, dalla rabbia pastosa che ha da poco ingoiato il pianto; un tempo laggiù c’era il vecchio paese mentre oggi resta la memoria mortificata da un segno profondo inciso nella terra squartata dalle unghie che ancora risplendono di bianco smaltato. A quarant’anni di distanza il sole spella le case, sbiadisce le strade, corrode i colori e satura i profumi di questo quadrato che ha smarrito la luce ed ha faticato a farsene una ragione. Nuova Gibellina è bianca, come la memoria che non esiste, come la faccia della paura che ancora resiste ed il museo all’aperto è poco più di un cimitero dell’arte che trasuda sgomento e pulsione, tristezza e dolcezza. Passione e nostalgia.