domenica 14 marzo 2010

febbre


Le cime del Matese sono di fronte, scaltre e supine, ammaliate nei loro busti eretti, avvolte in rauchi mantelli di seta bianca, soffice e linda, costrette in quegli abiti lucenti che di solito indossano soltanto nei rigidi mesi invernali. Ruviano e Alvignano, Dragoni e Baia e Latina, Roccaromana e Pietramelara, infine Riardo sono un manipolo di paesi che si affacciano con clemenza dalla rocca. Sembrano scappati n fretta da un alluvione, evasi, riparati e dolcemente aggrappati alla crosta, sospesi e smarriti come protuberanze della rupe estrema, scorbutiche evanescenze introverse della terra.
Mi sorprendono le immagini di sempre, sempre uguali a se stesse eppure così rinnovate, filtrate da una luce differente. Sono le uniche capaci di restituirmi quella febbre e quella sete, quel pianto di un bambino intruso che non riesco a trattenere, che non sono più in grado di ricavare da altri luoghi: gli intonaci fatiscenti corrosi dal muschio, i luminari decrepiti in ferro battuto, una donna che trattiene a malapena uno scialle di lana sulle sue spalle smunte, che si lancia nel freddo ventoso per prendere qualche ceppo di arbusto nel deposito, la legna fresca e disordinata davanti alle case, i muri in puro tufo vergine che cingono ogni portone, la fragranza della fuliggine della cenere. Alcuni bar hanno già chiuso, mentre ovunque un profumo di freddo grigio e coperto, un odore acre di ruggine e di serrande abbassate. Camminano a testa bassa, con il petto gonfio che non riesce a sputare un respiro, il rantolo che sfugge e risale, un imbarazzo intimo che riaffiora, sfiora e fiorisce negli occhi che celano una grave mancanza, una perdita mai cancellata, il lutto impresso sul volto scavato e asciutto, che risale attraverso gli spigoli delle ossa del viso. Il rispetto della memoria inciso nel silenzio e nell’andatura lenta. Ci hanno detto che le cose da queste parti valgono poco, qualche moneta appena o al massimo. E’ soltanto avanzo del giorno che se n’è andato.

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