domenica 2 maggio 2010

Gli occhi di Maria e la morte del pollo

Giuseppina governa la piccola parte di una masseria, che si affaccia sul ciglio della strada che porta a Limatola, prima della pompa di benzina Api. Mi aspetta già da un pezzo e quando arrivo mi rimprovera con il suo sguardo metà sorriso metà durezza. Sembra uscita da un film di Ciprì e Maresco. E’ un personaggio vivace, simpatico e poi parla sempre e solo di soldi. Più che in campagna voi dovevate lavorare in banca, le dico sempre, e lei si mette a ridere e fa come per darmi uno schiaffo.

Chi ti cucina il pollo? mi chiede perentoria. Giuseppina ha cinque figlie, tutte non sposate e mi racconta che vivono con lei, tranne Concetta che sta a roma e lavora, a Tivoli anzi mi dice, non si ricorda bene e non sa neanche cosa fa, credo robb’ e contabilità, cuncett ten e scol’. In campagna con lei c’è Maria ed insieme portano avanti tutta la baracca. Maria ha le spalle strette di chi vuole dare meno fastidio possibile, lavora duro ed ha il fare risoluto di chi ha troppa fretta di uscire di scena, semmai addirittura scomparire. E’ una madonna timida, il viso emaciato e smunto, lo sguardo chino e i capelli tirati e stretti sotto un cappellino liso e lercio che dona risalto ai suoi grandi occhi color nocciola. Secondo me è bellissima ma Maria è troppo interessata a ripulirsi l’auto. Dico a Giuseppina che voglio fare un film su di lei, voglio che lei mi racconti la sua vita davanti ad un bicchiere di vino, che una domenica mio porto la telecamera. Lei mi guarda con tono buffo e lusingato, mi fissa con un sorriso furbo ed attento, mi guarda bene e poi mi manda simpaticamente a quel paese. Le chiedo le solite uova mentre mi aggiro tra i campi. Le uove le deve prendere Maria. Nel frattempo versa dell’acqua in una pentola e la lascia bollire sul fuoco. Prima di fare quello per cui sono venuto faccio visita alle bestie. Nella masseria ci sono mucche, anatre capre conigli vitellini e polli. Le chiedo se qualche domenica posso darle una mano visto che lei deve mettere ancora i pomodori. Mi dice che io non sono buono per la terra che non ho i calli in mezzo alle mani. Chi ti cucina il pollo? Gli occhi azzurri, che emergono sotto una patina di rughe, tradiscono il ghigno beffardo e arguto di Giuseppina. Lei mi ripete che ha cinque figlie femmine, con la stessa aria di un venditore di tappeti iraniani.

Mi mostra un bel pollo, giovane e cresciuto. Io lo voglio più piccolo e ne scelgo un altro, ma lei mi vuole dare quello più grande. E così lo insegue, prima lo costringe all’angolo del pollaio, poi lo acciuffa e lo capovolge, tenendolo per le zampe ben strette. Il pollo è immobile sulla bilancia. Tre chilogrammi e mezzo. Si allontana ma prima si procura un coltello bianco. Giusto il tempo di fare qualche passo e taglia con un colpo secco la gola del pennuto. Per un attimo si ferma il tempo e sembra accadere il nulla. Poi il pollo comincia a sbattersi e a dare colpi, come un’anima impazzita dal dolore che devasta e si abbatte contro la gabbia del corpo. La lotta agonica dura una decina di secondi scarsi, alla fine il pollo si arrende. E’ morto. Giuseppina lo prende per il collo e lo cala nel secchio di acqua calda. Non si dovrebbe vedere morire un pollo, dice, mentre immerge il corpo del pennuto nel contenitore. Giuseppina ripone l’animale sul tavolo bianco e comincia a spennarlo, fino a renderlo completamente bianco. Mette da parte stomaco zampe la testa del pollo. Queste sono per il brodo. Le dico che non mi interessano e può darle anche ai gatti.

Restiamo intenti a guardare la macellazione del pollo, senza provare scrupolo alcuno. Le zampe del pollo ai gatti e il ritorno di Maria con le uove. Faccio per guardare i suoi occhi e lei fa a tempo a regalarmi le spalle e senza dire una parola ritorna ai campi.

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