Un’immagine imponente di Gesù Cristo si erge all’improvviso sopra ad un cumulo di lamiere. L’auto è costretta a rallentare fino a fermarsi, davanti ad una delle tante bocche aperte dall’asfalto. Gli occhi obbligati si soffermano sull’icona pastello, l’espressione di misericordia ed il cuore cinto da una corona di spine. Ad Ottaviano sui cumuli di spazzatura germogliano i campi severi dell’agricoltura incolore. il Vesuvio è una distesa di sale verde, troppo spesso interrotta da gemme variopinte di cemento impastato. A Terzigno non si incontrano mai due palazzi uguali, mentre gli infissi riportano colori alterati e sbiaditi, dal bronzo al rosso opaco. San Giuseppe Vesuviano, Boscotrecase, Ottaviano, Pompei sono l’esplosione del ventre gonfio e slabbrato di Napoli. Il dorso della mano è un manto duro di vene ingrossate, una patina callosa, mentre il palmo è chiuso in un pugno neanche troppo stretto. L’accento è rotondo ed affilato, accompagnato di solito da un sorriso smorzato, come di chi nasconde i pochi denti tra le labbra. I bar hanno tutti una sala in fondo chiusa a chiave. Qui la gente sa che una parola è già tanto. In questi paesi non esiste un centro e le strade hanno tutte quante lo stesso nome. La terra di Raffaele Cutolo è stata ceduta da poco ai cinesi, che sono arrivati con le valigie piene di soldi e con il lavoro che non costa nulla. Adesso i figli dei magliari piangono perché qualcun altro comanda a casa loro. San Giuseppe Vesuviano è una strada dritta e lunga, che non finisce mai. Tutta uguale. Una filiera di jeans e tessuti scadenti disposti con ordine, allineati ed affiliati. Le sagome dei manichini sono le anime del falso e del contraffatto, eppure, da queste parti questi corpi bianchi e sagomati rappresentano ancora la vita grottesca che resiste e che non muore.
La storia di Piero
1 mese fa