domenica 23 gennaio 2011

Tarlabasi (Istanbul Nord)

A Paolo e Vittorio, vicini nonostante la lontananza


Da Taksim imbocco istiklal kaddesi fino a tunel. Conosco la strada soprattutto se la immagino. Scendo a Galata e mi affaccio dalle spalle dei pescatori in riga; sbircio dalle loro spalle in qualche caffè, prima di arrivare al mercato del pesce, prima di guardare il Bosforo che si specchia nel mio volto contrito e poco distratto. I pinnacoli dei minareti avvolgono le luci della sera laggiù, sotto ai merletti intarsiati del tokapi, e la città è più che mai ammantata di grigio e di foschia. Le navi nere attraversano il corridoio d’acqua che le conduce dritto in Asia. L’inverno già si affaccia e le lampadine del mercato del pesce di Karakoy evaporano una luce giallognola e fioca, decisamente più soffusa. Le cataste impilate conservano i resti dei pesci venduti e puliti, mentre i fumi dei palamuk arrostiti dei Balik si alzano sospinti dal vento. La voce dei pescatori canta l’ennesimo ribasso del prezzo ed incita all’ultimo affare. A quest’ora il pesce si vende a pezzi. Attraverso il ponte che taglia il corno. Gli uomini hanno le mani in tasca e masticano un’attesa speranzosa. Le canne da pesca stanno ferme e dritte sulla balconata e resistono ancora agli strappi del vento. Sono nell’area dei bazar e delle moschee. Giro nei mercati delle spezie ed infine svolto a destra verso i luoghi sacri di sultanahment. Finalmente giungo all’Università ed alle pendici di Fatih, dove le moschee si confondono con le bancarelle della frutta e delle scarpe false, mentre gli uomini sostano nei caffè e nei circoli nei pressi dell’acquedotto Valente, sorseggiando cay turco e leggendo i giornali sportivi. Donne non ce ne sono in giro. Ha ragione Pamuk, la tristezza di questa città è una patina che riveste ogni cosa, una pellicola che incarta ogni angolo, dalle guglie dei luoghi sacri ai fuochi accesi nei quartieri poveri. A Tarlabasi c’è una sede della polizia, i militari in bella posa e un blindato in esposizione museale. Vicoli stretti, rifiuti accatastati, fogne aperte e tanta gente per strada. Qui nessuno parla inglese eppure molti si fanno capire con gli occhi, coi gesti delle mani. Sulla facciata di un palazzo c’è un grande manifesto che raffigura un poliziotto che accarezza una bambina. Kol ganat geret. Mi prendo cura di te. Qui un piatto di pilav costa davvero poco mentre le kofte sono più grandi e più saporite. Rumeni, Curdi e nordafricani, ma più di tutti Tarlabasi è il quartiere dei bambini, che girano nei vicoli da soli, e camminano senza dare la mano alle madri, scalzi o con scarpe molto più grandi dei loro piedi. Hanno le facce sporche come il carbone, denti bianchi e gote sbiadite. Fanno giochi pericolosi, accendono fuochi, corrono e sorridono. Si lasciano fotografare e un attimo dopo lo scatto della mia “compatta” corrono a vedere nel riquadro della camera i loro volti, prima di esplodere in una fragorosa risata. A Tarlabasi non ci sono donne con lo chador. Hanno tutte un fazzoletto avvolto in testa e almeno un dente d’oro in bocca. Hanno nei tatuati sul viso e talvolta vistosi disegni sbiaditi sulle braccia. Alcune vendono i fiori a taksim, altre lavorano di notte. Quelle che mi riconoscono mi salutano con un occhiolino caloroso. I panni stesi si rincorrono sui fili come i bambini scalzi per la strada. I tappeti vengono lasciati appesi per giornate intere al sole, tra le ombre di palazzi dalle tinte pastello sconclusionate e tutte diverse in un delirio di sporcizia e rifiuti ammassati. Mi siedo e mi mangio un pezzo di pane caldo ancora fumante, appena partorito dal forno nella piazzetta. Al mio fianco un uomo ben vestito e con le scarpe lucidate ha tutta l’aria di essere uno che conta da queste parti. Ordina ad un bambino che gironzola in bici di comprargli le sigarette. Quando il bambino arriva gli fa un cenno come a dire di tenersi il resto. Dal Bar si fa portare 2 cay turchi, uno per lui l’altro per me. Lo ringrazio ma lui non risponde e guarda nel vuoto continuando a fumare. Inshallah. Se Dio vuole. Onur pronuncia questa parola soffiando con vigore nelle mani chiuse a forma di pugno e con gli occhi rivolti al cielo, quando gli dico che mi piacerebbe visitare lo stato del Kurdistan un giorno. Istklal Caddesi è il solito sciame umano, un fiume freddo di gente che si incammina con il capo chino, ad una velocità impressionante e senza mai abbandonarsi ad un sguardo o ad una smorfia del viso. Onur mi chiede se ho l’accendino e solo quando capisce che sono italiano mi rivela sua identità. Tra stranieri ci si capisce. I curdi temono solo i turchi, e si sentono a casa con gli stranieri. Perché sono ancora stranieri, anche se vivono a casa loro.