giovedì 30 dicembre 2010

Cartolina da Belgrado (Paolo Rumiz)



(Tratto da "E' Oriente" di P. Rumiz)

Pranziamo su una nave–ristorante, sotto la fortezza di kalemegdan. Il cuoco prende un pesce enorme, vivo, da una vasca, lo taglia in due con un colpo secco, la coda da una parte, la testa dall’altra, lo sventra, lo pulisce e butta sulla brace le due parti ancora pulsanti di vita indipendente. Ljubomir non fa una piega. Guardo fuori il fiume che rallenta, come nauseato, stanco di produrre storia. Sembra gli manchi la forza necessaria per passare i Carpazi e raggiungere il delta.

Sulla tolda di kalemegdan, la fortezza alta come un transatlantico sulla pianura, c’è il solito vecchio mondo di balordi, ma sempre più stinti, sempre più poveri. Rade, l’eroe della guerra di Liberazione con la divisa grigia e i baffi troppo gialli. Tanja sdentata che vende popcorn, Lazar il travestito, la vecchia Ljubica con i suoi centrini sul prato, Frane il mendicante, Dejan e Slavomir che suonano fisarmonica e violino. “Ballano in tondo, “ mi scrisse di loro Fabio, un amico, “per gli anziani e i giovani, per i loro morti e i figli mai avuti, per i cani randagi e le sirene della polizia, per i morti di fame e i mafiosi della guerra e della pace.”

venerdì 17 dicembre 2010

Marsiglia - Napoli solo ritorno



(di Andrea Bottalico - Tratto da Napoli Monitor)

Nella piazza di Porta d’Aix le persone si affollano in mezzo alle cianfrusaglie riciclate dai rom vicino ai cassonetti, e gli ambulanti vendono stecche di sigarette sussurrando ai passanti le marche di cui dispongono. Questa è l’ultima immagine della città, voglio stamparla bene in testa prima di ritornare a casa, tra le facce note e familiari.

La persona che ieri ha risposto al telefono era scocciata: un arabo dall’accento francese peggiore del mio che soltanto dopo avere insistito parecchio m’ha detto sbuffando di farmi trovare entro le sette in una strada nei pressi del mercato. Non c’è modo di sapere in anticipo se il pullman partirà o meno. Bisogna telefonare a un numero per rimediare qualche informazione e ritrovarsi al posto stabilito un’ora prima della partenza. Se trovi qualcuno bene, altrimenti se ne parla la domenica successiva. Da quanto ho capito, una sorta di ditta anomala mette a disposizione un pullman abusivo e due autisti ai commercianti che scendono a Napoli ogni settimana a mani vacanti, e salgono verso Marsiglia carichi di merce falsa.

Il pullman arriva, parcheggia in malo modo e cominciano a caricarlo. Completamente bianco, per niente affidabile, senza il nome di una qualsivoglia ditta sul fianco, con gli adesivi delle varie Madonne attaccate sul vetro e un rosario di legno appeso allo specchietto. Gli autisti escono dal portello laterale rattoppato con il nastro isolante. Quattro arabi arrivano di corsa, uno di loro dice di chiamarsi Mohamed, l’altro si chiama Alì e sembra nervoso. Poi ci sono Abdul e Ibrahim. Una signora di mezza età prende subito posto, dice di andare a Napoli una volta al mese per fare la spesa.

Jeans, giubbotti, scarpe, borse, occhiali da sole, camicie, orologi, mutande. Questi commercianti hanno capito dove si produce il falso d’autore. Pure i soldi falsi, ma da quando la guardia di finanza ha scoperto un laboratorio a Giugliano in cui falsificavano dinari algerini è diventato pericoloso. In ogni modo il pullman al ritorno è stracolmo di cartoni imballati a mestiere e il viaggio te lo fai in piedi con l’ansia addosso. I commercianti comprano nelle fabbriche clandestine di Napoli e dintorni per poi rivendere nei negozi del centro di Marsiglia. Per evitare i controlli scaricano la merce in altre automobili prima della frontiera, anche se la dogana francese non si mangia una risata e in passato il pullman l’hanno rivoltato da cima a fondo. L’ultimo controllo della polizia qualche mese fa: cinquemila euro di verbale e una caterva di cinture sequestrate.

In tutto questo gli autisti sono compaesani. Non appena entriamo in autostrada, Alì raccoglie i soldi e riprende a contarli insieme agli altri che teneva in mano prima di pagarli, ma quelli iniziano a discutere sul prezzo perché durante il viaggio d’andata ci sono state delle complicazioni. «Ma quali complicazioni?», fa Alì. Duecentocinquanta euro a testa e non si discute. Uno dei due autisti controlla attentamente ogni banconota passandoci l’unghia al centro. «Tu li vedi a questi? – dice indicandomeli con un cenno – Loro mandano avanti l’economia».

Si chiama Giggino. Dopo il segno della croce s’è seduto controvoglia al posto di guida, con gli occhi ancora abbuffati dal sonno scomodo e il viaggio d’andata sulla schiena. Altri pensieri gli passano per la testa, a Giggino: problemi irrisolti, cambiali insolvibili, l’amante ucraina da mantenere, ragion per cui se ne frega degli intrallazzi che fanno i contrabbandieri. «A me basta che mi pagano». Il suo aiutante spiega che ogni tanto è lui a fare la dogana ma il tutto finisce con qualche pezzo sottratto per il disturbo arrecato a un povero cristo sottopagato qual è.

Giggino invece non vuole saperne niente eppure li invidia senza darlo a vedere. Meglio stare al posto di quegli arabi votati al commercio informale piuttosto che guidare un pullman sfondato per tutta la notte, stressato al pensiero dei guai, sotto gli ordini di un certo Rafele che chiama al telefono per sapere se siamo partiti in orario. E in più si tratta del suo secondo lavoro – a nero – poiché ufficialmente Giggino lavora nella Cumana, e dovrà perfino montare il turno di mattina una volta arrivati. Gli chiedo come trascorre il tempo libero e lui risponde stizzito: «Ma quale tempo libero!». Di tanto in tanto gli dobbiamo ricordare di guardare avanti, di rallentare, l’altro gli grida all’improvviso, Giggì accort’, e lui s’innervosisce prima di prendersela con gli algerini là dietro, sui quali ricadono tutte le colpe delle sue eterne sconfitte.

Dal fondo del pullman, i ragazzi algerini guardano con rispettoso sospetto e ci rivolgono la parola soltanto se interpellati. Restano seduti a fumare, ascoltano musica rai, cercano di sviare i discorsi sui loro viaggi e sorridendo ostinatamente fingono di non capire le domande.

Giggino è convinto che sia stato quel “figlio di latrina” di Ibrahim a rubargli i soldi dal borsello in uno dei viaggi precedenti. È schivo come gli altri e la sua faccia credo di averla già vista da qualche parte. Dalle tasche caccia dei foglietti con sopra scritti indirizzi e numeri di telefono e i soldi li porta arrotolati nei calzini. Conosce Napoli meglio di tutti, Ibrahim, a differenza dei turisti che scappano via indignati da piazza Garibaldi. Soltanto Abdul sembra fidarsi, ma parla poco il francese e tanto meno l’italiano. Riusciamo ad abbozzare una conversazione nel dormiveglia, poiché un modo per restare svegli bisogna pur trovarlo, e la guida sportiva di Giggino non ci fa stare per niente quieti. Abdul è emigrato da poco, in passato ha lavorato nei campi. Spera di guadagnare un po’, mettere su famiglia e con l’aiuto di Allah ritornare al suo bled tagliato fuori dal mondo per piantare alberi da frutto. Alla fine ci ritroviamo ad ascoltare le canzoni di Dahmane El Arrachi.

Giggino non riesce a sopportare l’idea di dover lavorare per degli stranieri. Alì rifiuta di assaggiare il suo panino col capocollo e lui si prende collera, e quando cercano di spiegargli che non mangiano il maiale a lui non gli pare proprio possibile una cosa del genere. Forse Giggino disprezza quei ragazzi perché non ha il coraggio di disprezzare se stesso, eppure quello è stato l’unico sentimento veramente tangibile in tutto il viaggio, un livore assoluto accumulato nel tempo, facile da intuire perché familiare come le facce note che mi appresto a rivedere. Giggino ha continuato a guidare il pullman, azzardando sorpassi agli autotreni. Non appena arrivati, ha risposto a Rafele che ha richiamato per sapere se era andato tutto liscio, poi con un gesto di stizza ci ha mandati tutti a fanculo e se n’è andato di corsa a montare il turno di mattina. Alì e Abdul, intanto, hanno raccolto le valigie insieme agli altri, e trascinandole si sono avviati con quel ghigno smaliziato verso il mercato di porta Nolana.


lunedì 13 settembre 2010

Era una bella giornata d'agosto del 1913


Sull’atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso Nord. Le isoterme e le isotere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di venere, dell’anello di saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto del 1913.

Non diamo dunque particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi, e, frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall'eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell'insieme somigliava a una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche.


(L’uomo senza qualità – R.Musil)

giovedì 5 agosto 2010

Marocco Centrale





La sera, quando era già buio, andavo nel settore della djema el fna in cui le donne vendevano il pane. Accucciate per terra, formavano una lunga fila e il volto era tutto velato, tanto che si vedevano solo gli occhi.
Ogni donna aveva davanti a sé un cesto coperto da un panno, su cui erano appoggiati, ed esposti per la vendita dei pani piatti e rotondi. Passavo adagissimo lungo la fila, osservando le donne coi pani.
Si trattava perlopiù di donne mature e le loro forme ricordavano quelle dei pani
(E.Canetti – Le voci di Marrakech)


I fuochi fulgidi del fornellino montato su una bombola del gas nel bagno della pensione Cascade tirano i filtri pesanti della menta e contemporaneamente assorbono l’infuso del tè cinese. Ossìn si occupa di pulire le stanze dell’albergo compreso il terrazzo che affaccia su bab bou jeloud, e sorride leggermente mentre lo stelo della pianta di menta affonda nell’impasto opaco del bicchiere di vetro, dopo averlo mescolato e miscelato più volte, con lentezza. Il rito del whiskey marocchino è pronto in ogni luogo, ad ogni ora. Uomini dai sorrisi placidi e pazienti e dai visi emaciati spalancano generosi sorrisi di denti nerissimi, dilaniati e corrosi negli anni dalle zollette di zucchero che tagliano i tè o i caffè berberi. Siedono, abbandonati a sguardi lenti, sorseggiano con infinita pigrizia, rollano marquise di contrabbando mescolate ad hashish e dividono un piatto di harira, oppure di olive e un pezzo di pane caldo quando capita. Così scorre il giorno nei derb di Mèknes Fès e Rabat, e nelle medine dai tempi di ocra pastello, di bianco cenere e di un celeste tenue e accennato, ed il tempo, dilatato dai suoni delle nenie ipnotiche delle sure che i commercianti ascoltano accucciati nei loro vani commerciali di 3 mq, rotto dal canto dolce e rauco del Muezzin che si leva dai pinnacoli dei minareti e avvolge tutta la città vecchia. I souq sono pittoreschi gironi infernali sudici e sereni, crogiuoli di anime che si sfiorano, crocevia, vortice di persone, orge di viaggiatori e orde di fedeli rimettono i sandali dopo le preghiere, babele di pensieri e grida, poltiglie di strilla e silenzi. Balak, Balak! nei vicoli impastati trasportano latte fresco formaggio e cataste di menta e datteri. I polli sono nel recinto oppure impilati nelle casse di ferro, i gatti addentano gli avanzi tra ceste di cumino, pile di frutta, spezie colorate e farine. Carcasse di vitello vengono cotte a vapore su grossi pentolone mentre le teste sanguinanti sono riposte sui marmi. Il cammello è avvolto dai fumi della brace della sua stessa carne. Il macellaio ci sorride, ci siamo incontrati al bagno pubblico. Gli uomini di Dio credono anzitutto nelle loro mani, e con esse piegano, intarsiano, tagliano, scalpellano, incollano, cuciono, spaccano, modellano, ricamano, spaccano, riscaldano, cucinano, martellano o semplicemente parlano. Nelle ore in cui i mercati sono meno affollati le donne dell’hamam ne approfittano per uscire in fretta, e sperando di non essere viste, camminano con lo sguardo fermo e senza mai attraversare la strada. Sulla spiaggia di Rabat le donne restano in attesa che i mariti finiscano di giocare a pallone, oppure restano agli angoli della medina vendono biscotti al cocco per un dhiram o pesce fresco appena macellato. Il Marabutto prega la sua abluzione che termina sempre con Allah è grande, mentre Il postino in pensione giura di conoscere la medina come uno specchio, vuole venderci il suo sapere finto e con un sorriso garbato e senza denti si offre di accompagnarci in giro. A Meknès intere famiglie troppo numerose girano in vecchie mercedes dalle tinte coloniali mentre le ragazzine sotto i foulard ammiccano e sorridono i turisti occidentali. Il paesaggio lento che sbirciamo dai finestrini del taxi che ci porta dall’aeroporto alla città è lo stesso che osserviamo scorrere dal finestrino del treno, che ci conduce da una città all’altra. Sabbia rossiccia, sole che batte la polvere, gente appoggiata ad un tronco, bambini che giocano con palloni di cartone e case senza intonaco. I chioschi che vendono acqua confezionata e coca cola in vetro. Appena arrivati quaggiù un uomo con gli occhi grigi ci venne incontro e ci disse Benvenuti in Marocco due volte.

mercoledì 7 luglio 2010

Ercolano


Un vecchio libro sdrucito, dai rivoli ingialliti, e una donna anch’essa abulica che siede alla cassa del suo bancone lercio e dimenticato. Ella non possiede parole per nessuno e sputa fumi di tabacco scadente e maleodorante e infine calza un trucco fitto e finto. Non fa niente se non attraversare con lo sguardo il miasma che soffia a boccate. Le strettoie soffocanti del tufo e della polvere sono due mani che cingono il collo di Napoli, la raccolgono in un abbraccio che stringe ma che al tempo stesso si trattiene, mentre negli anfratti anemici e sbiaditi, gonfi di miseria e ingolfati di sporcizia e di facce troppo piccole per essere già così vecchie, piove un tempo irretito ed immobile. Fatiscente, ossessiva, famelica, cinica, affranta, tetra, decrepita, complice, senz’altro complicata. Ercolano è una località di esilio e suona una musica che non si ascolta altrove e le sue note sono il canto di chi rivendica ciò che sta per accadere prim’ancora di rimuginare quanto è appena andato via. Tra le pieghe del volto c’è il risvolto del dolore che si annida e si confonde, la ferita della morte che accarezza ogni espressione del viso e sommerge il sorriso che non fiorisce mai del tutto. Nei vicoli che cingono il mare senza mai afferrarlo, tra le sedie disposte alla rinfusa, suona il boato scaltro di uno schiaffo, seguito da un pianto che è una nenia flebile ed incolore, una cantilena fischiata, una voce simile ad un canto muto. Corrotta, unta e devastata, perversa, sconfitta e pervasa, oscura, antica, intima e isterica. Graffiata.

Sboccata, Ercolano non è mai sbocciata!

martedì 25 maggio 2010

Torre del Greco





Rampe di scaloni ampi, sudici e polverosi conducono il cratere direttamente al mare, lo accompagnano per mano. Un vociare plateale e sgualcito accoglie i pescatori che fanno ritorno dalle acque. Hanno sete e poca voglia di parlare. Camminano senza guardare, a testa bassa imprecano, biascicando qualche suono incomprensibile, ed infine maledicono con decisione il dio con le braccia aperte che si sporge dalla banchina dirimpetto. Gli uomini forgiati dal mare sono aspri e taciturni, notturni anche di giorno, silenziosi ed impavidi. Esuli in patria. Smarriti. Infine sostano sugli scogli, si abbandonano spaparanzati e stremati al sole cocente di metà giornata, fumano sigarette prima di addormentarsi sotto i cappelli di paglia sfilacciati e le barbe bianche ed incolte. Non parlano e non guardano. Il giorno non è ancora sceso, ma per loro è già notte fonda. I loro corpi salutano la vita per una manciata di minuti mentre dai barconi si rovesciano le reti gravide di pesce fresco. I frutti del mare sono ancora stipati nelle pance delle paranze che stanno arrivando alla spicciolata nel porto di Torre del Greco e si affollano in fila sulla banchina. Più avanti un rosario di lampadine appese riflette una luce fioca e giallognola sui marmi bianchi e lucidi appena lavati dal getto freddo delle pompe. Di fianco cataste di cassette di polistirolo immobili ed impilate. Il mercato attende di entrare in scena, tra resti di fabbricati in frantumi, scheletri di navi in riparazione e depositi fumosi e maleodoranti. Tutto intorno è un olezzo sparso di catrame e merluzzo, di olio e nafta, di cozze e di vernice. Il porto mostra la sua pelle salmastra, il suo volto povero ed emaciato, sporco e smunto, sommerso di pneumatici, monnezza di ogni genere e carte e frigoriferi vecchi ammassati e ferro vecchio.
Intanto il flutto continua a scheggiare la pietra disposta casualmente a blocchi e sbriciola il sale in effluvio,rendendolo vapore e polvere. 'E criature impavidamente si tuffano e sguazzano nel mare nero, alcune fanno le cozze sugli scogli.
I pesci del cielo salutano il ritorno delle sciabiche su cui intanto si preparano i nodi per il giorno successivo. E’ un fremito frettoloso di reti riavvolte da mani callose, di sguardi contriti dalla stanchezza, di corde umide e limacciose riordinate in fretta e disposte nelle casse. Il cane stravaccato a prua, stupefatto dal sole, giace semimorente su un letto di reti ammucchiate. A sera il sale corrode la pelle e le bandiere di prua strappano il vento senza timore. Il mare è aperto e scompigliato, la sabbia è nera e buia, il vento ammaina le acque. I pescatori fanno lentamente ritorno a casa con le buste piene di calamari, polpi e seppie. Il sipario del mercato cala, la notte è venuta a prenderli ancora una volta. I lupi hanno riavvolto gli ami, tirato via le canne ed i secchi e conservato per il giorno successivo il pane duro che servirà ad imbrogliare i pesci ancora una volta.

domenica 2 maggio 2010

Gli occhi di Maria e la morte del pollo

Giuseppina governa la piccola parte di una masseria, che si affaccia sul ciglio della strada che porta a Limatola, prima della pompa di benzina Api. Mi aspetta già da un pezzo e quando arrivo mi rimprovera con il suo sguardo metà sorriso metà durezza. Sembra uscita da un film di Ciprì e Maresco. E’ un personaggio vivace, simpatico e poi parla sempre e solo di soldi. Più che in campagna voi dovevate lavorare in banca, le dico sempre, e lei si mette a ridere e fa come per darmi uno schiaffo.

Chi ti cucina il pollo? mi chiede perentoria. Giuseppina ha cinque figlie, tutte non sposate e mi racconta che vivono con lei, tranne Concetta che sta a roma e lavora, a Tivoli anzi mi dice, non si ricorda bene e non sa neanche cosa fa, credo robb’ e contabilità, cuncett ten e scol’. In campagna con lei c’è Maria ed insieme portano avanti tutta la baracca. Maria ha le spalle strette di chi vuole dare meno fastidio possibile, lavora duro ed ha il fare risoluto di chi ha troppa fretta di uscire di scena, semmai addirittura scomparire. E’ una madonna timida, il viso emaciato e smunto, lo sguardo chino e i capelli tirati e stretti sotto un cappellino liso e lercio che dona risalto ai suoi grandi occhi color nocciola. Secondo me è bellissima ma Maria è troppo interessata a ripulirsi l’auto. Dico a Giuseppina che voglio fare un film su di lei, voglio che lei mi racconti la sua vita davanti ad un bicchiere di vino, che una domenica mio porto la telecamera. Lei mi guarda con tono buffo e lusingato, mi fissa con un sorriso furbo ed attento, mi guarda bene e poi mi manda simpaticamente a quel paese. Le chiedo le solite uova mentre mi aggiro tra i campi. Le uove le deve prendere Maria. Nel frattempo versa dell’acqua in una pentola e la lascia bollire sul fuoco. Prima di fare quello per cui sono venuto faccio visita alle bestie. Nella masseria ci sono mucche, anatre capre conigli vitellini e polli. Le chiedo se qualche domenica posso darle una mano visto che lei deve mettere ancora i pomodori. Mi dice che io non sono buono per la terra che non ho i calli in mezzo alle mani. Chi ti cucina il pollo? Gli occhi azzurri, che emergono sotto una patina di rughe, tradiscono il ghigno beffardo e arguto di Giuseppina. Lei mi ripete che ha cinque figlie femmine, con la stessa aria di un venditore di tappeti iraniani.

Mi mostra un bel pollo, giovane e cresciuto. Io lo voglio più piccolo e ne scelgo un altro, ma lei mi vuole dare quello più grande. E così lo insegue, prima lo costringe all’angolo del pollaio, poi lo acciuffa e lo capovolge, tenendolo per le zampe ben strette. Il pollo è immobile sulla bilancia. Tre chilogrammi e mezzo. Si allontana ma prima si procura un coltello bianco. Giusto il tempo di fare qualche passo e taglia con un colpo secco la gola del pennuto. Per un attimo si ferma il tempo e sembra accadere il nulla. Poi il pollo comincia a sbattersi e a dare colpi, come un’anima impazzita dal dolore che devasta e si abbatte contro la gabbia del corpo. La lotta agonica dura una decina di secondi scarsi, alla fine il pollo si arrende. E’ morto. Giuseppina lo prende per il collo e lo cala nel secchio di acqua calda. Non si dovrebbe vedere morire un pollo, dice, mentre immerge il corpo del pennuto nel contenitore. Giuseppina ripone l’animale sul tavolo bianco e comincia a spennarlo, fino a renderlo completamente bianco. Mette da parte stomaco zampe la testa del pollo. Queste sono per il brodo. Le dico che non mi interessano e può darle anche ai gatti.

Restiamo intenti a guardare la macellazione del pollo, senza provare scrupolo alcuno. Le zampe del pollo ai gatti e il ritorno di Maria con le uove. Faccio per guardare i suoi occhi e lei fa a tempo a regalarmi le spalle e senza dire una parola ritorna ai campi.