martedì 28 aprile 2009

Da Ailano a Cerreto Sannita passando sul tetto del Matese





Da Alife stavolta scelgo la strada interna. Svolto quindi per S.Angelo d’Alife e proseguo dritto. Oltrepasso il paese e guido verso Ailano. Il paesaggio è bellissimo, una cartolina. Supero Raviscanina ed imbocco la strada sulla destra. Raggiungo l’inconfondibile gruppo di case bianche compatte, che mi salutano dopo una serie di curve. Scatto qualche foto di lato e proseguo. Faccio sempre molte foto ad Ailano. Da tutti gli angoli. E’ un paese bellissimo. Mi commuove la sua timidezza e la sua integrità estetica. La strada scende e mi immetto nuovamente sulla Provinciale. Prima oltrepasso Pratella e le sue contrade e poi Prata Sannita ed il suo splendido castello. Svolto al bivio per Fontanagreca e salgo verso Gallo Matese. Per oltre 10 km guido tra panorami selvaggi, gole a strapiombo e una vegetazione incredibilmente accattivante.
Viaggio solitario e attraverso questa overdose di natura. La strada si arrampica verso la vetta. Inesorabilmente. Finalmente arrivo a Gallo Matese. Sono in montagna. Siamo a 900 mt. d’altezza. Un gruppo di case fa capolino, e così decido di fermarmi nel paese dei briganti. Alcuni motociclisti mi chiedono se c’è un distributore di benzina nei paraggi. A quest’ora sono tutti chiusi. Quando riparto incontro il magnifico lago, in splendida forma in questo break primaverile. Oltrepasso Letino e mi addentro attraverso un paesaggio di ruscelli, pascoli e di vegetazione fitta e rigogliosa. Animali lasciati allo stato brado. Cavalli, mucche e pecore abitano questi prati con la scioltezza di chi cammina scalzo a casa propria. A tratti gli alberi rendono ombroso il tragitto mentre altre volte il lago prorompe lateralmente con tutta la sua forza esplosiva. Mi fermo in riva al lago. Scatto qualche foto, contemplo il paesaggio e scorgo qualche gola, il cui gettito d’acqua zampilla con decisione dalla roccia. Mi stendo sull’erba e bevo questo silenzio infinito disinteressandomi delle nubi grigio intenso che si affacciano dalla cima della montagna. Riparto e costeggio Miralago stavolta vado ancora più lentamente. Non supero i 50 km/h. Marmitte poderose ed accelerazioni vibranti sfrecciano al mio fianco; il mio passo ricorda quello di una vecchia barca a remi che attraversa con affanno e senza fretta un mare in cui navigano scafi e barconi. Non pretendo niente di più in questo momento se non procedere con questo passo così lento che mi consente di cogliere intravedere e gustare tutte le sfumature ed i colori di una natura così coraggiosa. Arrivo al bivio e mi fermo davanti al bivio della scelta da prendere. Sono incerto se imboccare la strada del ritorno per Castello Matese oppure salire fino a Bocca della Selva e scendere per il beneventano. L’adrenalina è una punta di paura. Senza pensarci troppo scelgo di proseguire. Vado a Bocca della Selva e scendo fino a Cerreto Sannita. Guido in un territorio aspro e affascinante ma molto surreale. Salgo, la strada mi condurrà fino a 1700 mt d’altezza. Un sentiero molto solitario, l’asfalto è bucato. Ogni tanto mi conforta la presenza di qualche auto che vedo arrivare nel verso opposto. C’è anche qualche temerario venditore di formaggi ai bordi della strada oltre ai resti dell’inverno che è appena andato. Arrivo al secondo bivio. Spengo la moto e dispiego la cartina sul serbatoio. La terra è un boccone inghiottito da un silenzio tombale. La natura che mi circonda somiglia ad un pugile che sta per salire sul ring. Nell’apice della solitudine e del silenzio l’adrenalina monta nelle vene. Non posso tornare indietro e proseguire significa respirare. Sono nel mezzo della tundra matesina, dove Molise e Campania si guardano e la provincia di Caserta si fonde con quella di Benevento. Spingo la mia vecchia moto a valle, cominciamo a scendere e davanti ai miei occhi si dipana il regalo di un paesaggio lunare, insolito e stucchevole. Finisce la vegetazione fitta e si spalanca il nulla davanti a me. Sono esterrefatto. Mi fermo ogni 500 metri. Scatto foto, mi stendo sull’erba. Solo roccia e crostoni si stagliano sulle vallate infinite che si affacciano sul territorio di Telese. Fino a Pietraroja una quindicina di Km a gomito e tornanti in discesa attraversano un territorio nudo e ruvido, vivo, dalla patina argentea. Non guido, è piuttosto un dondolarmi sospeso. La strada è una serpentina avvolgente, che avviluppa tutto la montagna. Arrivo a Cusano Mutri, un paese che non è più un paese, soffocato com’è dalla moltitudine turistica e dalle folle che scoppiano nei vicoli del borgo per l’ennesima sagra organizzata. Non mi piace, riparto subito e mi fermo qualche km dopo. Preferisco il deserto solitario e le stravaganze barocche di Cerreto Sannita in questo pomeriggio di negozi chiusi. Mangio qualcosa a caso, scatto qualche foto, mi rimetto in sesto. Sono a casa.

sabato 25 aprile 2009

Alliphae 25 Aprile 2009





Il sole è già alto quando arrivo ad Alife. Mancano 10 minuti alle 11, ma in piazza, davanti al Municipio, c’è un mucchio di gente. Dentro non si può entrare, c’è troppa folla. Insegnanti, alunni, politici, ma anche molta gente comune. I Bar attorno alla piazza faticano a reggere le richieste di tanti caffè. E’ il giorno della memoria, della liberazione dal dominio nazi-fascista, ma oggi ad Alife si festeggia anche un’altra liberazione, visto che dopo duemila anni vengono riportati alla luce due gioielli dell’archeologia: l’anfiteatro romano ed il criptoportico. Mi affaccio nella sala consiliare, gremita in ogni ordine di posto. Il sindaco indossa con baldanza il doppiopetto di chi sa che sta scrivendo la storia di questo paese. Nella sala non mancano cravatte coraggiose ed acconciature che raccontano di Alife in un giorno di festa. Dopo lo sproloquio consuento e la carrellata di complimenti, dopo la benedizione che non manca mai, i sorrisi e la pacche sulle spalle, si va tutti compatti al taglio del nastro dell’anfiteatro. Molti stringono la mano al sindaco, all’assessore e al responsabile dei lavori, che con accento romano dice di non essere soddisfatto, perché lui non è mai soddisfatto. Chiedo informazioni generiche ad una signora grossa che ha il viso disteso di una maestra simpatica. La signora riconosce la mia voce. Mi chiede se sono io quello che ha chiamato l’altro giorno in Soprintendenza per sapere l’orario dell’inaugurazione. Si, le rispondo. Si scusa con me per la pessima comunicazione dell’evento. Ma lei di dov’è mi chiede. Di Caserta. Le chiedo se questo gioiello resterà chiuso dopo l’inaugurazione, come molti altri capolavori delle nostre terre. Speriamo di no, mi dice la maestra. Ma mi chiami e le faccio sapere quando sarà aperto. Ci siamo. Il sindaco taglia il nastro attenendosi alle ferme istruzioni dei fotografi. Lo spettacolo è straordinario. Il semicerchio dell’anfiteatro romano riportato alla luce è molto suggestivo. Nel 1976 il signor Renzo Orlandi aveva notato dalla sua abitazione che c’erano sull’erba dei segni che facevano pensare alla presenza di una struttura a forma di semicerchio. Successivamente furono fatte planimetrie catastali e sondaggi sul territorio fino a quando nel 1989 non incominciarono le trattative con i proprietari del terreno affinchè si procedesse con l’acquisto del terreno. Oggi viene alla luce questo piccolo capolavoro che un tempo ospitava gladiatori, belve feroci e giochi ludici. Alcuni spiegano come questo sito sia stato poi utilizzato anche per altre cause nelle epoche successive. Sono state rinvenute fornaci, necropoli e abitazioni. L’ anfiteatro romano è stato riportato alla luce grazie all’impegno delle varie amministrazioni comunali che hanno contribuito, nel tempo, alla realizzazione di questo evento con i fondi della Comunità europea. Sbircio tra le voci ed ascolto che tutti dicono di quanto poco si faccia in termini turistici dei molti tesori della città di Alife e dei dintorni di queste zone. Andiamo al Criptoportico che è all’interno delle mura, nella zona adiacente al Castello. Incontro Cristiana, una mia amica che studiava archeologia 15 anni fa e d’estate si divertiva con il campi di Legambiente a trovare reperti archeologici. Mi dice che qui appena scavi un poco esce qualcosa. Mi racconta che non ha ancora trovato un lavoro stabile ma che è contenta di aver contribuito ai lavori per Alife. Il Criptoportico è meraviglioso. Ha tre bracci, due che misurano 44 mt. ed un lato maggiore di 27,5. Non si sa ancora bene a cosa sia servito questo sito, quale sia stata la sua funzione principale, ma è probabile che fingesse da deposito, visto che di solito tali strutture costituivano gli ambienti sotterranei delle grandi ville romane. Costruito in età augustea il criptoportico di alife potrebbe anche essere stato adibito a discarica visto che sono stati rinvenuti notevoli resti di vasi porcellane e terracotte che hanno chiarito anche molti aspetti di un tempo della vota romana da queste parti. L’elemento particolare è che la struttura non sembra essere collegata con gli ambienti circostanti ma sono stati trovati dei canali direttamente collegati al decumano principale.

domenica 19 aprile 2009

Parco Regionale di Roccamonfina PARTE 2





(Tora e Piccilli - Marzano Appio - Sipicciano)
La torre di Tora sorge giusto al centro del paese. In cima, solitaria e silenziosa. Mastodontica, compatta e grigia. Sembra essere una macchia del cielo, una lingua di nuvola. Una voce coraggiosa mi dice, facendo capolino tra le tende della finestra di casa, che la torre è stata più volte rimodernata, che è stata definita anche monumento nazionale.
A Tora e Piccilli ci sono le più antiche orme dell’uomo di tutto il pianeta. Si, di tutto il pianeta, di tutto il mondo. E’ il più antico ritrovamento archeologico del mondo, ma il farmacista di Tora a cui mi rivolgo, mentre è intento a spingere col piede la serranda verso terra, chiedendogli di indicarmi il luogo delle orme, fa spallucce e si rivolge a me quasi seccato.
Se vai da solo non le riconosci neanche. Il cancello è quasi sempre chiuso.
Gli studi condotti sulle orme testimoniano che le stesse appartengono a uomini vissuti più di trecentomila anni fa. La leggenda narra del ritrovamento di 56 orme in prossimità della roccia successivamente all’eruzione del Vulcano di Roccamonfina. La tradizione popolare ha fatto il resto, definendo questi calchi Ciampate del Diavolo, visto che soltanto un demone è capace di camminare sulla cenere ardente. In realtà secondo gli studi del Professor Mietto, le impronte appartengono a tre individui che, 350 mila anni fa, si sono calati lungo la parete della montagna quando la fanghiglia era ancora calda. Precisamente, il prof. Rolandi, vulcanologo dell'Università di Napoli, ha stabilito, con metodi radiometrici, che le orme risalgono ad un periodo compreso tra 325 mila e 385 mila anni fa, ossia circa 200 mila anni prima dell'uomo di Neanderthal. Nei punti in cui si scivolava, gli uomini hanno utilizzato le mani, lasciando infatti alcune impronte di dita. Le 56 impronte, che misurano in media circa 10 centimetri per 20, appartengono quindi ad individui alti non più di un metro e mezzo, ma l'Homo heidelbergensis ha un'altezza media di un metro e 75. o sono stati dei bambini a lasciare le orme, oppure in Campania vivevano esemplari bassi di H. heidelbergensis.
Le orme si trovano precisamente in contrada Foresta, un pugno di case vicino Tora, alla fine di una strada selvaggia e suggestiva. Il cartello è alle spalle della chiesa di S.Andrea Apostolo e me o indica un bambino che gira sulla bici attorno alla cappella. Un luogo che avrebbe fatto la fortuna turistica di qualsiasi altro posto al mondo non casertano, immerso in un pesaggio da contea, lungo strade da favoletta di Andersen, e in una terra che celebra Chiese e Castelli in ogni suo angolo, ma che qui invece, non riesce ad andare oltre il pretesto di una scampagnata fuori porta. Anche le chiese presenti nel paese meritano un cenno; sia quella che si trova nel centro storico, qualche metro prima della torre, sia quella che ospita l’attuale convento di frati cappuccini che fu utilizzata anche anche come ospedale da campo per i garibaldini oltre un secolo fa. Anche il centro di Piccilli conserva intatta la bella Chiesa di San Giovanni Apostolo. La facciata presenta un doppio ordine, di cui quello inferiore con capitelli ionici raccordati da festoni e un portale mistilineo, mentre quello superiore con un finestrone rettangolare e un timpano triangolare con pinnacoli. Altra chiesa certamente meritevole di menzione è la chiesa parrocchiale della frazione di Sipicciano. La costruzione d'impianto medievale, con una facciata semplice ed un portale trittico, rifatto nel 1675. Concludo il giro spingendomi fino al Castello di Marzano Appio, anche se le nuvole mi suggeriscono di fare il percorso inverso. Decido di proseguire. Mi lascio alle spalle i profumi delle braci accese e delle carni che saltano sui carboni ardenti. Arrivo nel paese. Una donna mi indica il percorso che finisce dinanzi ad un cancello chiuso. Per fortuna c’è un varco laterale. Entro ed accedo al Castello. La struttura, in realtà, mantenendo i caratteri tipici dell’architettura cinquecentesca finisce con l’avere più un aspetto da palazzo baronale piuttosto che da castello vero e proprio. Ad ogni modo la facciata praticamente intatta e le cornici delle finestre del tempo oltre alle torri merlate conferiscono alla struttura un fascino notevole. Le tinte del cielo si sono compattate attorno al grigio scuro. Si è fatta ora.

lunedì 13 aprile 2009

Parco Regionale di Roccamonfina PARTE 1





Mi piace sempre quando arrivo a Roccamonfina perché quando entro nel paese c’è una bellissima piazza immensa che mi ricorda, per la sua ampiezza, le grandi piazze di alcune città europee. Parcheggio la moto e mi fermo su una panchina. Sono da solo, ma in compagnia di altri vecchi che siedono su altre panchine. C’è il sole, l’aria è pulita, e c’è un discreto movimento di gente in giro. Mi guardo intorno e mi accorgo di essere circondato da persone anziane. Fuori ai Bar, davanti al circolo e sulle panchine ci sono solo vecchi. Prima di proseguire per il mio giro cerco di capire qual è la strada migliore. Mi avvicino ad un gruppo di tre persone. Uno di loro è un uomo sulla settantina, vestito in modo impeccabile e pettinato con rigore. Indossa un gessato perfetto, sciarpa di lana e parla con un accento da vulgata di inizio novecento. Ha la pelle liscia e sottile, un sorriso rispettoso e mite e gli occhi gonfi traditi da qualche vena accentuata. Mi indica immediatamente la strada migliore per Galluccio, come chi conosce queste strade da quando è nato, ma mi dice che se cerco castelli in zona devo andare a Marzano Appio. Gli chiedo quanti anni ha e cominciamo a parlare. Si chiama Antonio Pittella mi dice che lui ha 85 anni ma che è esattamente uguale a quando ne aveva 50. Si è sposato il 3 gennaio del 1949, data che mi ripeterà ben quattro volte nel corso della chiacchierata. Mi dice che ha perso sua moglie quando aveva 60 anni, ma quando mi racconta questo particolare della sua vita la sua faccia non si incupisce, anzi si illumina di un sorriso sereno. Caro giovane, mi dice, prendendomi il braccio, il problema è che oggi non c’è più società (?), c’è molta separazione tra gli uomini. La gente anche quando ti saluta lo fa perché lo deve fare, ma spesso abbassa la testa. Io nun capisco perché la gente nun sorride chiu come a na vota. Una volta mio padre faceva sempre festa. Eravamo poveri, sulo la terra avevamo lui era agricoltore e la domenica comprava molta carne, vino e pasta fresca e facevamo festa nella campagna con le altre persone, con Carmine, con Erminio e col panettiere. Sapete dove abito io? Nella campagna prima della Cappella di S.Lorenzo, non so se l’avete vista prima di arrivare a lu paese. Molti sono andati via da Roccamonfina. Una volta eravamo seimila abitanti, ora ne siamo tremila. Antonella è andata in America quando aveva diciotto anni. Ora ne ha 58 ma non si dimentica mai di me. Ogni anno dice al marito se vuoi venire vieni altrimenti io torno a lu’ paese da papà. Prende l’aereo arriva a Roma e con la macchina viene a Roccamonfina. Purtroppo qui il lavoro nun ce sta e lei è dovuta ‘spatriare. Ma torna a Roccamonfina per la villeggiatura, anche perché d’estate si sta bene e una cosa è vivere un’altra è venirci per la villeggiatura. Ogni tanto mi chiama e dice papà non uscite di casa che vi ho mandato una guantiera di dolci così festeggiate voi e tutte le persone che mi hanno aiutato sempre. E così arrivano a casa dolci e spumante. L’altra figlia invece non è voluta andare via ed io le ho dato un fondo di terra pure a lei e lei ci ha costruito una casa sopra. L’anno scorso facemmo una bella festa tutti assieme quando finii l’ottantaquattresimo compleanno ed entrai negli ottantacinque. Antonio Pittella parlava ed il tempo sembrava essersi fermato. Le parole sciorinate da quell’uomo con tanta grazia mi lasciano di stucco e decido di non interromperlo per nessun motivo al mondo. Quando la mattina esco e vado sul fondo io lo guardo e sono contento. La terra mi ha dato a mangiare e anche se non ho più la forza ma sono contento per quello che ho fatto. Molti in paese mi dicono ma perché non vai all’America, ma io che ci vado a fare all’America ad aspettare il giorno e la notte quando torna mia figlia da lavoro oppure i nipoti miei. Io non saccio la lingua, non conosco le strade, mi sveglio e che devo fare mi devo sedere su uno scalino. Io qui ho tutto, gli amici, il circolo, esco nella piazza e parlo cu le persone e mi diverto, mi godo la vita e sono contento di quello che ho ma che ci devo andare a fare io all’America. Mi basta sapere che Antonella sta bene e pure i figli suoi stanno bene. Antonio si alza e mi dice che domani sarà ospite di sua sorella a Gallo e mi abbraccia forte dicendomi di salutare il commissario di Caserta che io sicuramente conosco, di portargli i suoi saluti perché è tanto una brava persona.
La provinciale che nasce da Teano la SP111 è molto bella, specialmente nell’ultimo tratto. I Castagni spogli ed il prato divenuto nel frattempo un mantello di foglie. La terra è color terra, un paesaggio da contea, sembra ambrata a tratti, è terra rossa, lucidata dal sole. Molte tonalità di marrone si alternano scompigliandosi e scomponendosi in una miriade di tinte sfumate, offrendo quasi le prime pennellate di una primavera autunnale. Gli alberi sono altissimi e quasi mai verdi. Decido di ritornare al santuario dei Monti Lattani, meta religiosa, ma soprattutto luogo meditativo, picco altissimo e solitario dal quale si può guardare tutta la vallata nel silenzio più assordante. Compro qualcosa da mangiare, scatto qualche foto alla collegiata della piazza e salgo. La moto spinge su questa salita ripida dove la vegetazione si fa ancora più fitta e severa. Arrivo al Santuario. Il chiostro e la cappella mantengono lo stile di sempre ma la pace ed il silenzio di questo posto restano gli elementi suggestivi e caratterizzanti. Mi fermo e resto ad ammirare il paesaggio che non conosce orizzonte, che non conosce latitudine talmente è sterminato e immenso. Riposo godendo della quiete silenziosa e quando riparto mi dirigo verso Conca della Campania. I 7 Km che separano Roccamonfina da Conca sono molto belli. Gli alberi allineati e la natura sono di stampo montano. Siamo a 700 mt d’altezza e l’aria è anche più frizzantina. Guidare in moto è da brividi, non aggiungo altro. Arrivato a Conca della Campania mi accorgo che questo paese, che vanta tra le altre cose probabilmente l’unico Ostello della gioventù della provincia di Caserta, altro non è se non una curva desolata e dimenticata. Ed infatti mi sbaglio. Le persone che non sono fuori all’Orange Bar si vedono davanti al Castello, 20 metri più avanti. C’è una zona nuova dove i ragazzi si incontrano in questo sabato alle 3 del pomeriggio. Arrivano con l’auto, aprono lo sportello e, senza parlare, cominciano a fumare o a guardare nel vuoto. Un Bar, un mini market, un coiffeur “Da Antonella”, una macelleria e la scritta fatiscente su un fabbricato vecchissimo color rosa sbiadito indica la presenza del Municipio. Intravedo un mucchio di case alle spalle e la targa Via Roma. Mi infilo ed arrivo davanti alla Collegiata di San Pietro, della seconda metà del XV secolo. Più tardi verrò a sapere che di questo edificio si parla in una bolla di Papa Sisto IV del 1474 e che custodisce un preziosisimo trittico ligneo del XVI sec. all’interno. Ammiro la facciata mentre una famiglia composta da mamma padre e figlio stanno caricando l’auto di viveri. Mi guardano sorpresi, quasi timorosi. Riparto alla volta di Galluccio. Quando arrivo a San Clemente di Galluccio credo di essere arrivato a Galluccio, invece mi accorgerò poi che una frazione è grande il triplo del paese a cui si riferisce. Quando a San Clemente chiedo di Galluccio, mi dicono, Guarda che ci sono 5 case lì. La Collegiata di S.Stefano costruita nel XVII secolo con la volta del presbiterio decorata con un affresco raffigurante la lapidazione del Santo e l'adiacente campanile di costruzione antecedente all'edificio sviluppato su quattro piani, la chiesa di San Nicola articolata su due ambienti sovrapposti asimmetricamente una cripta inferiore che è una cisterna romana di epoca repubblicana e un vano sottostante con resti di antichi dipinti. Resto a contemplare questa chiesa bellissima. Mi riposo su una panchina di pietra con lo zaino che mi fa da cuscino. Dormo qualche attimo in questo silenzio assoluto

domenica 12 aprile 2009

Rocca d'Evandro





Rocca d’Evandro. Il vento spira fin sulla rocca del Castello, accarezza le torri e scivola sul catenaccio che tiene chiuso il varco d’accesso al palazzo. Sono sulla cima delle cime. In vetta. Mi tolgo il casco. Siedo a terra e guardo intorno. Sensazione indescrivibile. Dietro di me il castello, intorno il vuoto e davanti una vallata di roccia e di silenzio gelato che schiafeggia la pareti della montagna, che bagna i castagni spogli, che fischia sulle pietre e dentro le porte. Quassù tu non ci puoi essere. Quassù tu non ci potrai mai essere. Anche io, qui da solo, sono di troppo e sento di essere qualcosa che disturba questa grande pace selvaggia. Quello di fronte a me è il Monte Camino dove avvene lo scontro tra Alleati schierati a Mignano Montelungo e i Tedeschi disposti a Cassino e sulla Rocca. Giovanni, un uomo panciuto che indossa pantaloni classici camicia a quadri sotto ad una giacca di tuta, mi spiega, sotto un sole già alto, che Rocca d’Evandro agli inizi del novecento era un centro di artigiani e commercianti. Calzolai, pescivendoli, venditori di spezie. Ogni porta del paese ospitava un commercio. Mi dice che sono rimasti in trecento, una volta erano tremila. Sai come è nata Rocca d’Evandro mi dice, mentre la sua voce echeggia in un silenzio imbarazzante. Perché il Garigliano un tempo era un fiume navigabile e per sfuggire agli attacchi dei turchi che andavano su e giù per il fiume a saccheggiare le città a ridosso del corso d’acqua, le popolazioni si vennero a rifugiare qui sopra e costruirono il castello sulla rocca, proprio per difendersi dagli attacchi dei predoni stranieri.
Sono le tre e non c’è un’anima nel paese, tranne Giovanni che mi racconta queste cose al centro della piazza, davanti alla chiesa. E’ un ragazzone che conosce meglio di molti libri la storia di questi posti, ed io ne approfitto. L’unico Bar è chiuso. Più in là un vecchietto riposa su una panchina. Mi avvicino e, senza che io gli chiedessi nulla, lui mi risponde che il prete lascia le chiavi della chiesa al Bar. Insisto con la mia domanda. Ma comi vi chiamate. Il prete lascia le chiavi della chiesa al Bar. Mi faccio un giro per il paese. Una coppia di signori mi chiede se, per caso, sto cercando qualcuno.
Decido di andare a Mignano Montelungo, dall’altro lato della montagna. Ci vado seguendo le indicazioni del benzinaio. Invece di aggirare la montagna la taglio da sopra. Seguo la strada che si perde tra i monti, salgo fino alla cima e scendo giù a valle in un percorso imperdibile per chi gira in moto. Arrivo a Mignano Montelungo, il dialetto è ostile, risente delle influenze laziali. E poi non mi piacciono i paesi che si sviluppano su una strada, anche se la città di Mignano Montelungo vanta un passato di tutto rispetto visto che oltre ad essere stata dominata dai Sedicini, dagli etruschi e dai Romani è appartenuta alle contee di Benevento e di Capua.

sabato 4 aprile 2009

Irpinia (120 Km.)





Negli occhi di Orazio c’è la stanchezza di un corpo vecchio e malconcio e la ruvidezza di un’espressione antica, ma anche l’orgoglio e la fiducia che evidentemente lui ripone nel suo bastone di legno, che lo accompagna su e giù per i viottoli di San Martino Valle Caudina. Orazio Piceno è un vecchietto simpatico che trovo seduto su una panchina. Dice di avere otto anni. “Ottanta? No Otto ma il 9 giugno entro negli ottantuno. Sono nato a San Martino e abito da sempre in quella casa - e mi mostra una vecchia abitazione decrepita alla spalle del castello - Il castello era dei duchi Pignatelli. Un tempo San Martino faceva dieci mila abitanti, ora non siamo neanche 4 mila (…) Sto bene solo che non ci vedo. Davanti a me c’è tutto fumo, tipo cenere. Il cuore non mi aiuta tanto ma io mi bevo mezzo bicchiere di vino ogni giorno e dopo mangiato mi faccio sempre una bella passeggiata. Ma se mi stanco mi siedo e mi riposo. Ringraziando dio ho una bella pensione, di 250 euro al mese e non mi posso lamentare…” Con Arpaia ed Airola si oltrepassa il confine casertano e si accede definitivamente alla Valle Caudina prima di addentrarsi in quel lembo di territorio conteso e confuso tra il Taburno beneventano e il Partenio avellinese. Nel luogo in cui i sanniti imposero ai battaglioni Romani l’umiliazione delle forche oggi c'è una bella Macelleria che ricorda inesorabile “Castrato a 3 € al Kg”. La strada che si inerpica da San Martino Valle Caudina fino ad arrivare alle porte di Avellino, segna l’accesso ai luoghi dell’Irpinia. S.Martino, Pannarano, Roccabascerana, Pietrastornina, S.Angelo a Scala, Summonte e Ospidaletto d’Alpinolo sono tutte piccole perline, infilate, una dietro l’altra, nel filo di strada che congiunge Montesarchio ad Avellino attraverso un sentiero stupefacente, soprattutto dal punto di vista paesaggistico. La strada infatti, che costeggia i crostoni sporgenti dei Monti d’Avella, Vallantrano e Taburno, è un grande panorama, una ringhiera lunga più di 20 km, che si affaccia su tutto il paesaggio irpino e la valle caudina. Pannarano, enclave sannita in territorio avellinese, è il primo paese che si incontra salendo. Da Roccabascerana la strada diventa invece più interessante, offrendo, a chi la percorre in moto specialmente, dei paesaggi molto accattivanti man mano che si sale verso la vetta. Da un lato le pareti rocciose e vive della Montagna, dall’altro le dolci colline del Fiano e del sangiovese che scendono verso la pianura, il tutto in perfetto stile godereccio in cui dominano i salumi freschi, gli odori dei prodotti caseari e le coltivazioni d’olivi. Lungo la strada che si arrampica in curve improponibili domina il silenzio della montagna e il tono severo delle rocce. Sono le due e non c’è un’anima a Roccabascerana ed io siedo dinanzi alla facciata gotica ed al rosone della Chiesa di S.Giorgio e San Leonardo, che conserva la falange di un dito di S. Giorgio. I paeselli hanno un forte connotato di detersivo quando li si cammina e gli abitanti del posto non capiscono bene cosa ci faccia da quelle parti un solitario turista armato di cartina e macchina fotografica. Molti non sanno che ci sono torri medioevali e ruderi di castello proprio nei loro paesi abbandonati e sconosciuti. Molti non capiscono qual è la grande ricchezza di questi luoghi, che la svalutazione operata dal mondo civilizzato ed occidentale ha reso ancora più succulenti, in quanto vergini e suggestivi. Roccabascerana e Pietrastornina conservano i resti dei loro castelli su una roccia, in entrambe i casi si tratta di un masso imponente che sorge al centro del paese. Sono castelli risalenti all’epoca longobarda, successivamente rimessi alle contese dei conti svevi ed angioini. I centri che si incontrano lungo il sentiero sono poco affascinanti invece dal punto di vista urbanistico ed architettonico, non essendo borghi antichi e di vecchia età. Si tratta per lo più di ricostruzioni recenti avvenute in seguito alle scosse telluriche dell’80. Le ferite inferte dal terremoto hanno reso inagibile la gran parte delle abitazioni di questi paesi e la ricostruzione è stata rifatta sulla base di uno stile moderno affrettato, in cui sono prevalse, purtroppo, strutture minicondominiali e semimontane, vernici talvolta troppo accese e marmi eccessivamente luccicanti e bianchi. L’unica eccezione è rappresentata da Summonte (Sub Monte = sotto al monte), autentica gemma dell’irpinia occidentale. Nel borgo alle porte di avellino infatti, sia la torre angioina che la chiesa di San Nicola e i suoi dipinti all’interno, che le porte di accesso alla città meritano di essere visitate. Mimmo, proprietario del Bar “Sotto i Tigli”, mentre mi prepara un caffè e mi parla dell’Avellino che anche quest’anno retrocederà in serie C, mi spiega che a Summonte hanno ricostruito il paese esattamente uguale a com’era prima. Mi dice che per tornare a Montesarchio potrei prendere la trada a scorrimento veloce per Altavilla Irpina. Ma io desisto, preferisco rifare il percorso e procedere a ritroso per rileggere quei panorami nel senso inverso, per vedere quello che ho visto solo da un lato, che quindi non ho visto ancora...