lunedì 2 novembre 2009

Sicilia in disparte


Valderice per un istante mi riconduce all’entroterra toscano, ad un’approssimazione dell’Appennino, invece è semplicemente il nome di uno dei tanti paesi dispersi e sciolti nella calura della paesologia trapanese, nel sud profondo ed estremo della Sicilia ghiacciata e arida. La strada che conduce alla città di Trapani somiglia ad un imbuto, un ingorgo reticolato di flutti traversi e di ingressi che conducono in luoghi mescolati e solitari, di passaggio. Questa Sicilia è il crocevia di un’algebra paesaggistica che si dipana attraverso questo cono di terra che sporge verso l’Africa e verso il vuoto; è qui che le uve sono lasciate appassire oltre gli steccati della polvere, e la montagna è un crampo della fame che punge al centro dello stomaco, una fitta irrequieta e dolorosa che si arrende soltanto alla fine.
Al confine con le terre del Marsala Superiore la lingua di mare lecca i contorni delle case che sono protesi coraggiosamente in avanti, mentre le dune di sale luccicano di un brillio lineare, quasi umido; l’asfalto sfuma nella polvere incolore a causa dell’ombra cocente e le montagne ostentano lo sfregio inferto dal marmo scavato senza troppi scrupoli. Il paesaggio rammenta la schiena irrigidita di una donna, ma anche un deserto colorato a tratti, uno spazio brullo ed arido dal colore rossiccio secco su cui pedala forte qualsiasi fantasia ventilata e afosa. Sul fianco curvo che strapiomba direttamente a mare, i crostoni aguzzi delle rocce accompagnano la strada in un tornante che avvinghia tutta la provincia di Trapani. San Vito lo Capo è l’ultimo paese prima del nulla, poichè oltre abita solo la bocca del mare nero.
Il signor Culicchia continua a spalare fango e a ricacciare l’acqua che ha invaso la sua pasticceria. Tutti giurano che non veniva giù tutta questa pioggia dal 76’. La città è provata ed ha tolto il cappello. Ora ha un aspetto davvero surreale; è grigia e bella, sudata e vinta. Provata. Affranta. Le stradine del centro sono eleganti e composte, come anche le chiese, l’orologio e la cattedrale, mentre il mare, nervoso ed eccitato, continua a picchiare in modo ossessivo ai lati, sulle banchine e sulla sabbia, come un pugile che prima di sferrare l’attacco al volto continua a colpire sui fianchi. Lontano dal centro restano i sorrisi della gente ed un porto piccolo, malconcio e sporco.
Selinunte e Segesta. A Nuova Gibellina invece la Sicilia ha il volto di vetro, una maschera trasparente di profumo bianco, dal fascino triste, carica di una tonalità accesa e forte che scompiglia coraggiosamente il tono di questa terra, così grave e lontano. Nuova Gibellina è un’altra donna, seduta su un marciapiede che si tira la gonna fin su le ginocchia. Il Belice è un deserto di dolore, rivestito dalla brina di un silenzio apicale ed incolore, corrotto dal cemento ruvido e poroso, dalla rabbia pastosa che ha da poco ingoiato il pianto; un tempo laggiù c’era il vecchio paese mentre oggi resta la memoria mortificata da un segno profondo inciso nella terra squartata dalle unghie che ancora risplendono di bianco smaltato. A quarant’anni di distanza il sole spella le case, sbiadisce le strade, corrode i colori e satura i profumi di questo quadrato che ha smarrito la luce ed ha faticato a farsene una ragione. Nuova Gibellina è bianca, come la memoria che non esiste, come la faccia della paura che ancora resiste ed il museo all’aperto è poco più di un cimitero dell’arte che trasuda sgomento e pulsione, tristezza e dolcezza. Passione e nostalgia.

domenica 20 settembre 2009

Palermo (Italia, Sicilia, Mediterraneo)





Fuori respiriamo. Per la prima volta abbiamo avuto paura. Le bombe continuano a piovere.

(Agota Kristof - Trilogia della città di k.)

Palermo smodata, disagio e delirio. Palermo eccessiva e imbarazzante. Palermo martirio. Dal porto di palme e vento, intriso dell’aroma di alici e di petrolio delle navi si accede direttamente ai quartieri poveri che prorompono direttamente dalla polvere della cala e dalle acque del mare.

Palermo volto sacro e spirito santo, il ventre di una giovane vedova che viene dal mare, da lontano, nei secoli dei secoli, che ha mille volti ma in braccio porta i suoi vicoli, e li culla e li allatta, come una madre preoccupata e paziente; la Vucciria e la Kalsa somigliano alle sue vene gonfie di sangue bollente; quei vicoli sono simili ai rivoli delle acque, alle correnti in cui regna un’atmosfera madida di tufo, di pace e di stantio; le lampadine illuminano il giorno acceso sulle bancarelle mentre le voci bagnate e graffiate dei pescatori fanno il prezzo e i lamenti strillati delle giovani madri si rincorrono e rimboccano precipitosamente le strade.

Palermo preghiera e iconografia dei santi, Palermo blasfema e ortodossa. Palermo lercia. All’improvviso una cattedrale, semplicemente un altare oppure anche una chiesa, le cui pareti, incensate dagli unguenti del mare, sono di un impasto grigio, di cemento e salsedine. Dovunque è un affollarsi di palazzi di un tempo diverso, ciascuno differente dall’altro, intonati in una tinta unica e dissonante, insensata, quell’ocra antico di sabbia africana che rimanda ai toni soffusi delle lampade a petrolio, alle architetture marocchine fino ai maestosi capricci dei califfi orientali. Dalla Kalsa fino a Porta Nuova passando per Pretoria, Santa Caterina, I quattro canti, la cattedrale e la cappella palatina. Un famelico andirivieni di colori, crogiuolo di epoche, crocevia di tratti.

Porto enorme, Palermo madre con le sue voci, quelle dei venditori ambulanti di pesce, di olive e di spezie, dei commercianti di tonno e di milza che stazionano davanti alle proprie botteghe, con le facce gonfie di chi non ha dormito. Dovunque si ascolta il loro grido, una nenia dolce e sboccata, Palermo slabbrata; una lingua che è il ritorno ad un canto, ad un sospiro in versi in cui le vocali lunghe e gli accenti acerbi richiamano all’incanto delle leggendarie sirene ed ai versi dei celebratori turchi che salutano l’arrivo del sole.

Piove, un diluvio torrenziale cinge Palermo e tra i vicoli di Ballarò ricoperti di mondezza e di bancarelle in cui si grida di frutta e pesce vivo, nessuno sembra credere all’acqua che viene dall’alto. E’ il sole buio, la profezia magica dell’oro bagnato che tutti speravano, la ricompensa per il supplizio di un’estate rovente. Nel mercato tutti tendono le braccia verso l’alto, per un attimo maledicono i loro affari e mentre lanciano grida di gioia, si inchinano per salutare l’arrivo del mare che viene dal cielo. A Ballarò le case hanno gli intonaci fatiscenti, le bombole del gas sono fuori ai balconi e alcune abitazioni hanno i tetti sfondati; ma i bambini continuano a giocare a pallone sotto ai teloni, davanti alle porte negozi e ai cancelli delle chiese.

Nella Kalsa, in Via Alloro, poco prima di palazzo Abetellis, mi fermo davanti ad un negozio senza insegna che ha la serranda semichiusa. Fuori su un cartello c’è scritto a penna Miezu pani ca meusa 1,70€. Entro. Padre e figlio hanno la stessa stazza. Sono larghi almeno quanto la loro altezza. L’ambiente è sudicio, il bancone è misero. Il padre impreca in dialetto siciliano e taglia a fette un panetto di carne scura e dura che raccoglie in una bacinella. Ordino una panino. Il giovanotto lascia cadere le fette di meusa nel pentolone dove è lasciato friggere e bollire lo strutto e un olio nero. Li riprende qualche attimo dopo, e senza farli scolare ne comprime un grosso quantitativo nel pane fresco.

lunedì 7 settembre 2009

Castrovalva (Aq)





Un solo filo d'erba, un solo scarabeo, una sola formica, un'ape dai riflessi d'oro... testimoniano d'istinto il mistero divino
(Dostoevskij – Fratelli Karamazov)


Castrovalva è un paesello che si protende con spigliatezza dalla roccia cruda, uno sperone di crosta che si sporge da uno dei tanti ciuffi di pietra che anticipano le gole del fiume Sagittario. Castrovalva è poco più di una manciata di case, messe in fila a casaccio, lassù in cima. E’ proprio lì, in quel punto e a quell’ora, che la pietra sbiadisce in un grigio di cenere e calcare che sa di antico, mentre qualche ciocca d’albero accarezza la parete del dirupo che degrada a strapiombo fino al fiume, di cui si sente soltanto la lusinga dello scroscio.
In alto c’è Castrovalva, a settentrione di un meridione mai visto, anonimo e sterminato; il meridione infinito dei paesi, dolce e disobbediente, solitario e silente. I paesi fanno tutti quanti parte di un mondo che non conosce latitudini né punti cardinali. Tutti appartengono all’unica bisettrice, compreso Castrovalva che si affaccia severa e austera su Anversa degli Abruzzi e che solo a guardarla mette i brividi. Se si viene da Sulmona, prima di attraversare le gole e di incrociare il lago di Scanno, si intravede sulla sinistra un sentiero timido e smunto che svolta nel verde infinito, una vecchia mulattiera asfaltata che si dirige sulla vetta. Per cercare l’indicazione della strada che conduce alla sommità, bisogna sbirciare tra le fronde degli alberi, scavare e scovarla a mani nude. Quel segnale è un tradimento.
Il paese nasce alla fine di un tragitto che si dipana e si arrampica fino alla cima. Per arrivarci bisogna chiudere gli occhi e trattenere il respiro, procedere senza guardare giù, perché la balaustra è sottile ed esposta al vuoto primordiale ed il volo è un brivido affascinante e sublime che l’immaginazione non riesce a trattenere, ma neanche a lasciare andare, che non può arginare.
Oltre Castrovalva c’è soltanto un ruvido cielo a spicchi che giura pioggia.
Ad accogliermi c’è un fico ancora in embrione, una sedia di paglia sfilacciata e una fontana che non smette di erogare acqua sorgente. A Castrovalva d’inverno ci sono quindici abitanti, ma qualcuno giura orgogliosamente diciotto. Il paese è una grande casa, i vicoli sono corridoi di tufo vergine. Sulla facciata della chiesa c’è un grande orologio da polso ricoperto da una lastra di vetro opaco. La piazza non ha nome e sul cartello c’è scritto semplicemente Piazza.
D’estate si arriva in tutto a duecento, tra parenti ed amici e qualche romantico solitario. Al paese si accede solo a piedi. Fabrizio, non è di queste parti, come non lo sono le bretelle che indossa e lo è ancor meno sua moglie, una grossa donna olandese sorridente e bionda. L’accento della capitale lo tradisce e giura che scappa da Roma tutte le volte che può, perché si è innamorato di questo posto trent’anni fa e non lo lascerebbe per niente al mondo. Il terremoto ha solo lambito Castrovalva. Tutto si è salvato qui, eccetto una parete della chiesa di Santa Maria a Nives. A Castrovalva si muore soltanto eppure la vita trabocca e fiorisce nella sua solitudine inerme e nella dignità dei fili d’erba inesorabilmente irrorati dal sole.

mercoledì 26 agosto 2009

Lago di Corree




"O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto"

(D.Alighieri - Canto X - Inferno)



Il lago di Corree di Marzano Appio è un lembo d’acqua sbocciato all’improvviso nella roccia granitica di uno dei crateri del vulcano di Roccamonfina. Una delle tante scommesse ignote e maldestre di questa terra, un itinerario unico in un luogo fatato e magico che si incontra soltanto se l’ostinazione e la determinazione riescono ad avere la meglio sull’incuria e sulla dimenticanza che cingono e avvolgono questo angolo ameno e schivo.

Se si cerca su google “Lago di Corree” si trova un solo link: è un video di diciassette secondi, una panoramica silenziosa del lago firmato da un commento che non lascia alcun dubbio:

Non scherzo nel dire che per me è il posto piu bello del mondo.

Mi basta questa soffiata.

Quando mi fermo a Vairano Scalo so di essere nei pressi del lago, ad un paio di Km, non di più.

Ma l’uomo sulla quarantina a cui chiedo informazioni mi spiazza, mi dice che lui è nato a Vairano ma non conosce affatto l’esistenza di un lago nella zona.

Procedo ancora sulla Casilina, oltrepasso il bivio per Marzano Appio e alzo il livello di guardia. Dovrei esserci, lo so. Nei pressi di un cassonetto dell’immondizia posto sul ciglio della strada, davanti all’unica abitazione disabitata, scorgo un pannello che indica un percorso di trekking per escursionisti. Mi fermo e faccio caso che su un pezzo di legno grigio e rinsecchito c’è scritto qualcosa, un’indicazione forse. Devo avvicinarmi per leggere che la scritta intarsiata tra le venature arse e corrose segnala Lago di Corree.

Imbocco la stradina e avanzo per un paio di Km. Quando l’asfalto termina, mi imbatto in un percorso di polvere e pietre chi si dipana tra un enorme frutteto, tra filari di meli e peschi esposti sotto un sole cocente e secco. La moto fatica e strappa, procedo ancora un po’ fino a quando non arrivo davanti ad una casa colonica enorme. La casa è senza porte, aperta e disabitata. E’ un deposito e non c’è nessuno. Capisco di aver sbagliato e torno indietro, sperando di prestare maggiore attenzione e magari notare qualche insegna che mi è sfuggita. Mi ritrovo al punto di partenza, davanti al cassonetto e all’indicazione sbiadita. Attraverso la Casilina. Stavolta vado dall’altro lato. C’è una casetta e decido di citofonare. Mi viene incontro un uomo in canotta accompagnato da un mastino napoletano poco docile e nervoso, che si asciuga le mani con uno strofinaccio. Mentre accarezza la testa enorme del suo cane mi dice di ritornare indietro, di fare attenzione ad un blocco di marmo bianco posto sul ciglio della strada ed infine di cercare il sentiero a piedi. Riparto, e dopo poco trovo il piccolo pilastrino di marmo. Parcheggio la moto e mi inoltro a piedi. Mi ritrovo in un’area privata, un moggio di terreno chiuso e recintato, non coltivato. Scavalco la recinzione e intuisco di aver indovinato la strada. Dal varco assolato e pianeggiante accedo ad un luogo ombroso e fresco, dove la vegetazione è fitta e disordinata, caotica selvaggia e scura. Una fessura tra gli arbusti mi regala qualche scorcio di lago, un angolo sbieco in cui si intrufola lo sguardo, mentre tutt’attorno è un’orchestra di suoni incrociati di ogni genere. Attraverso un ponticello e il sentiero comincia a scendere giù. L’ultimo tratto è un corridoio di fanghiglia e di melma e per guadarlo devo arrampicarmi sulla ringhiera di legno. Finalmente il lago compare davanti a me. E’ un luogo assolutamente selvaggio, in cui la natura esprime tutta la sua timidezza istintiva e primordiale attraverso un’aggressione casuale e primitiva degli spazi e dei tempi. Le geometrie sono assolutamente improvvisate, le musiche appena accarezzate. Mi limito a guardare, richiamato da un fascino che avverto e sento nelle viscere ma che non riesco a decifrare. Il lago è piccolo e raccolto; una conca selvaggia circondata e abbracciata da una folla di alberi impettiti e arricciati, che spiovono direttamente sull’acqua, distribuendo mille toni di verde. L’acqua è una pagina punteggiata dalle foglie. Intorno è un vociare fitto ed insistito, un frastuono di brusii e gorgheggi,una giungla di cicalecci e di parlottii scompigliati ma allo stesso tempo incredibilmente coordinati, in cui si riconoscono nitidamente timbri e versi di una fauna tutt’altro che familiare.

C’è un tavolo vecchio e solo, abbandonato sulla sponda del lago, che ha imbarcato solo fango e qualche avanzo di sole, che ha l’aria di non essere frequentato parecchio.

mercoledì 19 agosto 2009

sabato 15 agosto 2009

Sipicciano





Non ho mai capito da quale paese provengono le favole. Una tinta intensa e pregna di un rosso bruno e sfumato prorompe sulla strada che conduce da Teano a Galluccio e che si spinge fino a Rocca d’Evandro. Terra e cielo sono un unico pastello quassù dove le volpi di solito non attraversano la strada. L’autunno è nell’ambra delle foglie e permane anche oltre l’autunno stesso. Le foglie tradiscono la stagione non soltanto in Primavera. L’umido della legna di brina ce l’hai appiccicato addosso e non va via neanche se ti scrolli i vestiti. Ad un tratto il sentiero si spacca in due parti e da un lato si fa totalmente buio, nonostante ci sia ancora molta luce. Il bivio quasi suggerisce di non svoltare, incute timore, evoca immagini. Si arriva al borgo di Sipicciano se non ci si lascia intimorire dall’ombra fitta degli arbusti e ci si inerpica attraverso la terra bruna ed ambrata aggredita dal muschio e dai castagni secolari. Sipicciano non sta molto in alto ma è un borgo isolato e solitario. All’improvviso si giunge in una piazza con un grosso tiglio. All’imrovviso proprio come il lupo cattivo. E solo allora si capisce di essere arrivati. Il tiglio di Sipicciano è come un drappo strappato dal vento in cima alla torre di un castello; sembra un re che siede imperturbabile sul suo trono e sovrasta l’unica piazza del paese, cingendo il portale della stupenda chiesa seicentesca. Attorno alla parrocchia si attorcigliano le stradine timide e sobrie, che si arrampicano e talvolta muoiono davanti ad un portoncino o a qualche scalinata.
A Sipicciano non c’è più la guerra, anche se ogni tanto per ammazzare il tempo, capita di udire il rombo delle granate ed il suono sordo degli spari. Sipicciano ha il volto di un bimbo piccolo che non si cura del chiasso e riposa imperturbabile nonostante il frastuono e la ressa.
A Sipicciano il vento è uscito all’improvviso e non ha più fatto ritorno. Nei vicoli baciati dal tufo qualche insegna di marmo ricorda i personaggi illustri di questo fazzoletto di terra; un vescovo emigrato in Australia e qualche artista in giro per l’Europa. Molti sono partiti e sono in pochissimi ad arrivare a Sipicciano. Nei paesi la celebrità è un passaporto che si ottiene con la partenza; diventi famoso solo se te ne sei vai e lasci agli altri la speranza del ritorno. Nessuno conosce questo paese perché nessuno è perfetto. Sipicciano è un’ombra che non si confonde sulla parete; va sbirciato perché è nascosto tra i castagni vecchissimi, perché è timido e non sa di essere un borgo stupendo. Qui gli alberi sono uguali alle pietre, il sole somiglia al profilo dell’asfalto e le vita nelle case è qualcosa che resta legato all’immaginazione di una quotidianità che è sempre la stessa. I vicoli di Sipicciano somigliano ad un volto corrucciato ed imbronciato, sono le rughe di una mano callosa e bruna che non ha mai smesso di vangare la terra.
Qualcosa mi porta fuori, quasi mi accompagna per mano all’esterno del paese, tra le foglie scure, la legna ordinata a blocchi e i mattoni in fila. I fienili brillano al sole, davanti ad un gruppo di fattorie, poco prima del paese e davanti a me un trattore conduce due contadini ai campi. Il dirupo ha la voce del bosco ed il profilo del lupo cattivo che si mostra a me soltanto di spalle, e che quando si gira mi sorride.

lunedì 3 agosto 2009

S.Agata de'Goti






"La bellezza salverà il mondo" (F.Dostoevskji)

E’ uno di quei pomeriggi di Luglio che sembrano non finire mai, di quelli in cui c’è troppa luce ed il caldo perseguita ogni movimento e gela ogni pensiero. Un pomeriggio di ventilatori che alitano solo aria calda e non raffreddano mai. E’ uno di quei giorni in cui ci si deve arrendere semplicemente perché non esiste scelta; un giorno in cui il materasso è una lingua di asfalto che arde e frigge la mia schiena già impanata di sudore e mi induce a cercare chissà cosa senza sapere dove.

Sant’Agata de’ goti è una bambola di ceramica glabra messa a sedere su quei comò di inizio novecento con le venature del legno che brillano di restauro, o che giacciono appoggiate su quelle eleganti sedie trapuntate in seta di quei soggiorni barocchi carichi di velluti e gonfi di tende ricamate a mano. Una bambola dai capelli lisci e sottili, color grano, pettinati con cura da mani gentili e sottili che suonano pianoforti probabilmente.

Sant’Agata è circondata da una dozzina di contrade che non le somigliano per niente, ma che le ricordano il suo passato di pomodori arsi dal sole, di castagne rubate e di acqua tirata su dai pozzi. Sant’Agata è un’orfana ma che ha tanti fratelli. Mi accoglie lo stradone di sempre, fitto di alberi giovani e rigogliosi che scortano il bordo buio della strada come soldati ubbidienti, e che precedono l’ingresso sul vuoto che anticipa di qualche metro la facciata imponente del paese che si affaccia oltre la siepe.

Addentrarsi nei luoghi di questo centro è come salire gli scaloni di marmo di un’università prestigiosa o di un edificio pubblico antico e ben tenuto. Sant’Agata si sporge su un fiume che non esiste, ma che tutti hanno imparato ad immaginarne il suono e a temerne la corrente. I balconi sono intarsiati di ferro battuto e levigato, le porte delle botteghe in legno massello hanno le cerniere di ottone e si aprono tutte verso l’esterno mentre gli intonaci pastello riprendono quasi sempre compostamente le tinte di una volta. Gli uomini sono ben pettinati, hanno i baffi curati ed i colletti delle camicie impomatati. Girano a piedi e frequentano sorridenti le viuzze del paese il cui cui unico torto è quello di ospitare un numero inspiegabilmente eccessivo di barbieri e di farmacie. Il vento non si alza manco a quest’ora e le stradine si divertono a strangolare l’aria e di moltiplicare la calura. I limoni abbelliscono le piazzette che interrompono il decumano. Le fontane di pietra ed i portali delle chiese sono raccolti come il petto di una donna non più troppo giovane e che ha troppi pensieri per la testa.

E’ un pomeriggio di quelli in cui ci si sbatte e non si riesce a trovare pace fino a quando l’inquietudine non si trasforma in inerzia e il movimento nasce spontaneo, come naturale ed impulsiva alternativa al soffocamento. Il motivo per cui sono arrivato a Sant’agata de’ goti l’ho capito soltanto quando sono tornato a casa.

mercoledì 15 luglio 2009

Cairano





Cairano non è un viaggio, è un’ascensione piuttosto, un'altitudine intima e greve in cui ci si rifugia quando si è soli, un angolo al riparo in cui sembra esserci già stati qualche volta, magari in qualche tempo; un luogo che risulta difficile da comprendere e pensare anche per l’immaginario più fervido e vivace. Cairano è un paese sospeso nel pallore nebbioso della luce, un posto sorpreso a stento nel colore buio che filtra dall’intercapedine dell’ultimo varco irpino, dal quale già si intravedono i paesaggi sordi e polverosi della Basilicata.

Sapevo che la moto avrebbe sofferto uno strappo così lungo. Lo sapevo, e quando prima del bivio per Andreatta l’ho sentita tossire, ho preferito fare sosta al Bar per mangiare qualcosa. In attesa che si raffreddasse anche il motore della moto, ho ordinato una pizzetta fredda che il barista, impegnato a vedere il gran premio di Formula Uno, mi ha servito con fin troppa poca attenzione. E così ho preso posto all’esterno, su una sedia e un tavolino di plastica bianca sporco e malconcio e ho mangiato con poco gusto perché avevo troppa voglia di arrivare a Cairano ed ero un po’ preoccupato per il cigolio che sentivo arrivare dal serbatoio della moto.

Riparto, seguo le indicazioni per Calitri e Melfi. Proseguo sull’Ofantina che sembra divertirsi a contorcersi e ad intrecciarsi proprio ora che sono quasi arrivato a destinazione. Viaggio verso la Basilicata, dove la terra è ferma, dove è nullo qualsiasi movimento. Ho la sensazione vaga di attraversare un luogo afono, dove oltre il rombo del mio unico cilindro non si sente altro, e pare non si percepisca altro. Sembra che anche gli uccelli siano andati altrove. La prepotenza della natura è visibile anche a occhio nudo. Arrivo nei pressi di Conza che precede una spianata enorme, quasi sconfinata. La strada prosegue su un acquedotto altissimo e spacca in due il paesaggio. Le montagne sono alle mie spalle e davanti a me e non posso fare altro che tagliare questa pianura aperta e vergine.

Lascio le indicazioni e dimentico la cartina stradale, Cairano è lassù che mi guarda e mi aspetta ed io mi dirigo ostinato verso la cima. Cairano è un paese assorto che sta alla fine di una rupe. Cairano è già oltre la rupe e il paese comincia proprio dove incomincia il cielo, quando la strada termina nel vuoto della vallata. Cairano sorge su un braccio che fuoriesce dalla montagna, è un grappolo che spiove dall’alto, un girone dantesco in festa, un tramonto di pietra su cui è riflessa la luce del giorno, un ciuffo d’erba in controluce, un albero antico al centro del paese, una strada che sale e conduce dritto fino al grande portone del cielo. Cairano è un’isola sulla terraferma circondata da un’atmosfera di latte. Le parole scritte sono insidiose almeno quanto la salita imponente che accompagna la mia moto, esausta oramai, fino al paese. Più ci si avvicina e più ci si perde, eppure Cairano è lì, che aspetta di abbracciarti, come una madre timida ed impacciata che attende con gli occhi ma che non allunga mai le braccia per venirti a prendere.

Le persone che incontro sembrano gli abitanti di un luogo di confine, relegati all’esilio dell’altura assolata, nell’effluvio ebbro dei pomeriggi perduti a fissare il vuoto, in un silenzio compreso soltanto da chi lo vive ed è costretto a masticarlo ogni giorno. Mi sento fuori posto, come sempre. Che sono venuto a fare. Cairano è dall’altro lato, all’opposto, è in alto e bisogna cambiare la prospettiva dello sguardo per guardarla, benedire il sudore e il timore e alzare la testa. Bisogna avere molta sete per arrivare in questo splendido deserto. Mentre abbasso il cavalletto ricordo che devo fare anche benzina. Mi avvicino ad un gruppo di vecchietti a cui chiedo informazioni. Il benzinaio è vicino ma è verso Melfi ed è rischioso arrivarci. Oggi è solo Domenica.