mercoledì 26 agosto 2009

Lago di Corree




"O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto"

(D.Alighieri - Canto X - Inferno)



Il lago di Corree di Marzano Appio è un lembo d’acqua sbocciato all’improvviso nella roccia granitica di uno dei crateri del vulcano di Roccamonfina. Una delle tante scommesse ignote e maldestre di questa terra, un itinerario unico in un luogo fatato e magico che si incontra soltanto se l’ostinazione e la determinazione riescono ad avere la meglio sull’incuria e sulla dimenticanza che cingono e avvolgono questo angolo ameno e schivo.

Se si cerca su google “Lago di Corree” si trova un solo link: è un video di diciassette secondi, una panoramica silenziosa del lago firmato da un commento che non lascia alcun dubbio:

Non scherzo nel dire che per me è il posto piu bello del mondo.

Mi basta questa soffiata.

Quando mi fermo a Vairano Scalo so di essere nei pressi del lago, ad un paio di Km, non di più.

Ma l’uomo sulla quarantina a cui chiedo informazioni mi spiazza, mi dice che lui è nato a Vairano ma non conosce affatto l’esistenza di un lago nella zona.

Procedo ancora sulla Casilina, oltrepasso il bivio per Marzano Appio e alzo il livello di guardia. Dovrei esserci, lo so. Nei pressi di un cassonetto dell’immondizia posto sul ciglio della strada, davanti all’unica abitazione disabitata, scorgo un pannello che indica un percorso di trekking per escursionisti. Mi fermo e faccio caso che su un pezzo di legno grigio e rinsecchito c’è scritto qualcosa, un’indicazione forse. Devo avvicinarmi per leggere che la scritta intarsiata tra le venature arse e corrose segnala Lago di Corree.

Imbocco la stradina e avanzo per un paio di Km. Quando l’asfalto termina, mi imbatto in un percorso di polvere e pietre chi si dipana tra un enorme frutteto, tra filari di meli e peschi esposti sotto un sole cocente e secco. La moto fatica e strappa, procedo ancora un po’ fino a quando non arrivo davanti ad una casa colonica enorme. La casa è senza porte, aperta e disabitata. E’ un deposito e non c’è nessuno. Capisco di aver sbagliato e torno indietro, sperando di prestare maggiore attenzione e magari notare qualche insegna che mi è sfuggita. Mi ritrovo al punto di partenza, davanti al cassonetto e all’indicazione sbiadita. Attraverso la Casilina. Stavolta vado dall’altro lato. C’è una casetta e decido di citofonare. Mi viene incontro un uomo in canotta accompagnato da un mastino napoletano poco docile e nervoso, che si asciuga le mani con uno strofinaccio. Mentre accarezza la testa enorme del suo cane mi dice di ritornare indietro, di fare attenzione ad un blocco di marmo bianco posto sul ciglio della strada ed infine di cercare il sentiero a piedi. Riparto, e dopo poco trovo il piccolo pilastrino di marmo. Parcheggio la moto e mi inoltro a piedi. Mi ritrovo in un’area privata, un moggio di terreno chiuso e recintato, non coltivato. Scavalco la recinzione e intuisco di aver indovinato la strada. Dal varco assolato e pianeggiante accedo ad un luogo ombroso e fresco, dove la vegetazione è fitta e disordinata, caotica selvaggia e scura. Una fessura tra gli arbusti mi regala qualche scorcio di lago, un angolo sbieco in cui si intrufola lo sguardo, mentre tutt’attorno è un’orchestra di suoni incrociati di ogni genere. Attraverso un ponticello e il sentiero comincia a scendere giù. L’ultimo tratto è un corridoio di fanghiglia e di melma e per guadarlo devo arrampicarmi sulla ringhiera di legno. Finalmente il lago compare davanti a me. E’ un luogo assolutamente selvaggio, in cui la natura esprime tutta la sua timidezza istintiva e primordiale attraverso un’aggressione casuale e primitiva degli spazi e dei tempi. Le geometrie sono assolutamente improvvisate, le musiche appena accarezzate. Mi limito a guardare, richiamato da un fascino che avverto e sento nelle viscere ma che non riesco a decifrare. Il lago è piccolo e raccolto; una conca selvaggia circondata e abbracciata da una folla di alberi impettiti e arricciati, che spiovono direttamente sull’acqua, distribuendo mille toni di verde. L’acqua è una pagina punteggiata dalle foglie. Intorno è un vociare fitto ed insistito, un frastuono di brusii e gorgheggi,una giungla di cicalecci e di parlottii scompigliati ma allo stesso tempo incredibilmente coordinati, in cui si riconoscono nitidamente timbri e versi di una fauna tutt’altro che familiare.

C’è un tavolo vecchio e solo, abbandonato sulla sponda del lago, che ha imbarcato solo fango e qualche avanzo di sole, che ha l’aria di non essere frequentato parecchio.

mercoledì 19 agosto 2009

sabato 15 agosto 2009

Sipicciano





Non ho mai capito da quale paese provengono le favole. Una tinta intensa e pregna di un rosso bruno e sfumato prorompe sulla strada che conduce da Teano a Galluccio e che si spinge fino a Rocca d’Evandro. Terra e cielo sono un unico pastello quassù dove le volpi di solito non attraversano la strada. L’autunno è nell’ambra delle foglie e permane anche oltre l’autunno stesso. Le foglie tradiscono la stagione non soltanto in Primavera. L’umido della legna di brina ce l’hai appiccicato addosso e non va via neanche se ti scrolli i vestiti. Ad un tratto il sentiero si spacca in due parti e da un lato si fa totalmente buio, nonostante ci sia ancora molta luce. Il bivio quasi suggerisce di non svoltare, incute timore, evoca immagini. Si arriva al borgo di Sipicciano se non ci si lascia intimorire dall’ombra fitta degli arbusti e ci si inerpica attraverso la terra bruna ed ambrata aggredita dal muschio e dai castagni secolari. Sipicciano non sta molto in alto ma è un borgo isolato e solitario. All’improvviso si giunge in una piazza con un grosso tiglio. All’imrovviso proprio come il lupo cattivo. E solo allora si capisce di essere arrivati. Il tiglio di Sipicciano è come un drappo strappato dal vento in cima alla torre di un castello; sembra un re che siede imperturbabile sul suo trono e sovrasta l’unica piazza del paese, cingendo il portale della stupenda chiesa seicentesca. Attorno alla parrocchia si attorcigliano le stradine timide e sobrie, che si arrampicano e talvolta muoiono davanti ad un portoncino o a qualche scalinata.
A Sipicciano non c’è più la guerra, anche se ogni tanto per ammazzare il tempo, capita di udire il rombo delle granate ed il suono sordo degli spari. Sipicciano ha il volto di un bimbo piccolo che non si cura del chiasso e riposa imperturbabile nonostante il frastuono e la ressa.
A Sipicciano il vento è uscito all’improvviso e non ha più fatto ritorno. Nei vicoli baciati dal tufo qualche insegna di marmo ricorda i personaggi illustri di questo fazzoletto di terra; un vescovo emigrato in Australia e qualche artista in giro per l’Europa. Molti sono partiti e sono in pochissimi ad arrivare a Sipicciano. Nei paesi la celebrità è un passaporto che si ottiene con la partenza; diventi famoso solo se te ne sei vai e lasci agli altri la speranza del ritorno. Nessuno conosce questo paese perché nessuno è perfetto. Sipicciano è un’ombra che non si confonde sulla parete; va sbirciato perché è nascosto tra i castagni vecchissimi, perché è timido e non sa di essere un borgo stupendo. Qui gli alberi sono uguali alle pietre, il sole somiglia al profilo dell’asfalto e le vita nelle case è qualcosa che resta legato all’immaginazione di una quotidianità che è sempre la stessa. I vicoli di Sipicciano somigliano ad un volto corrucciato ed imbronciato, sono le rughe di una mano callosa e bruna che non ha mai smesso di vangare la terra.
Qualcosa mi porta fuori, quasi mi accompagna per mano all’esterno del paese, tra le foglie scure, la legna ordinata a blocchi e i mattoni in fila. I fienili brillano al sole, davanti ad un gruppo di fattorie, poco prima del paese e davanti a me un trattore conduce due contadini ai campi. Il dirupo ha la voce del bosco ed il profilo del lupo cattivo che si mostra a me soltanto di spalle, e che quando si gira mi sorride.

lunedì 3 agosto 2009

S.Agata de'Goti






"La bellezza salverà il mondo" (F.Dostoevskji)

E’ uno di quei pomeriggi di Luglio che sembrano non finire mai, di quelli in cui c’è troppa luce ed il caldo perseguita ogni movimento e gela ogni pensiero. Un pomeriggio di ventilatori che alitano solo aria calda e non raffreddano mai. E’ uno di quei giorni in cui ci si deve arrendere semplicemente perché non esiste scelta; un giorno in cui il materasso è una lingua di asfalto che arde e frigge la mia schiena già impanata di sudore e mi induce a cercare chissà cosa senza sapere dove.

Sant’Agata de’ goti è una bambola di ceramica glabra messa a sedere su quei comò di inizio novecento con le venature del legno che brillano di restauro, o che giacciono appoggiate su quelle eleganti sedie trapuntate in seta di quei soggiorni barocchi carichi di velluti e gonfi di tende ricamate a mano. Una bambola dai capelli lisci e sottili, color grano, pettinati con cura da mani gentili e sottili che suonano pianoforti probabilmente.

Sant’Agata è circondata da una dozzina di contrade che non le somigliano per niente, ma che le ricordano il suo passato di pomodori arsi dal sole, di castagne rubate e di acqua tirata su dai pozzi. Sant’Agata è un’orfana ma che ha tanti fratelli. Mi accoglie lo stradone di sempre, fitto di alberi giovani e rigogliosi che scortano il bordo buio della strada come soldati ubbidienti, e che precedono l’ingresso sul vuoto che anticipa di qualche metro la facciata imponente del paese che si affaccia oltre la siepe.

Addentrarsi nei luoghi di questo centro è come salire gli scaloni di marmo di un’università prestigiosa o di un edificio pubblico antico e ben tenuto. Sant’Agata si sporge su un fiume che non esiste, ma che tutti hanno imparato ad immaginarne il suono e a temerne la corrente. I balconi sono intarsiati di ferro battuto e levigato, le porte delle botteghe in legno massello hanno le cerniere di ottone e si aprono tutte verso l’esterno mentre gli intonaci pastello riprendono quasi sempre compostamente le tinte di una volta. Gli uomini sono ben pettinati, hanno i baffi curati ed i colletti delle camicie impomatati. Girano a piedi e frequentano sorridenti le viuzze del paese il cui cui unico torto è quello di ospitare un numero inspiegabilmente eccessivo di barbieri e di farmacie. Il vento non si alza manco a quest’ora e le stradine si divertono a strangolare l’aria e di moltiplicare la calura. I limoni abbelliscono le piazzette che interrompono il decumano. Le fontane di pietra ed i portali delle chiese sono raccolti come il petto di una donna non più troppo giovane e che ha troppi pensieri per la testa.

E’ un pomeriggio di quelli in cui ci si sbatte e non si riesce a trovare pace fino a quando l’inquietudine non si trasforma in inerzia e il movimento nasce spontaneo, come naturale ed impulsiva alternativa al soffocamento. Il motivo per cui sono arrivato a Sant’agata de’ goti l’ho capito soltanto quando sono tornato a casa.