lunedì 7 settembre 2009

Castrovalva (Aq)





Un solo filo d'erba, un solo scarabeo, una sola formica, un'ape dai riflessi d'oro... testimoniano d'istinto il mistero divino
(Dostoevskij – Fratelli Karamazov)


Castrovalva è un paesello che si protende con spigliatezza dalla roccia cruda, uno sperone di crosta che si sporge da uno dei tanti ciuffi di pietra che anticipano le gole del fiume Sagittario. Castrovalva è poco più di una manciata di case, messe in fila a casaccio, lassù in cima. E’ proprio lì, in quel punto e a quell’ora, che la pietra sbiadisce in un grigio di cenere e calcare che sa di antico, mentre qualche ciocca d’albero accarezza la parete del dirupo che degrada a strapiombo fino al fiume, di cui si sente soltanto la lusinga dello scroscio.
In alto c’è Castrovalva, a settentrione di un meridione mai visto, anonimo e sterminato; il meridione infinito dei paesi, dolce e disobbediente, solitario e silente. I paesi fanno tutti quanti parte di un mondo che non conosce latitudini né punti cardinali. Tutti appartengono all’unica bisettrice, compreso Castrovalva che si affaccia severa e austera su Anversa degli Abruzzi e che solo a guardarla mette i brividi. Se si viene da Sulmona, prima di attraversare le gole e di incrociare il lago di Scanno, si intravede sulla sinistra un sentiero timido e smunto che svolta nel verde infinito, una vecchia mulattiera asfaltata che si dirige sulla vetta. Per cercare l’indicazione della strada che conduce alla sommità, bisogna sbirciare tra le fronde degli alberi, scavare e scovarla a mani nude. Quel segnale è un tradimento.
Il paese nasce alla fine di un tragitto che si dipana e si arrampica fino alla cima. Per arrivarci bisogna chiudere gli occhi e trattenere il respiro, procedere senza guardare giù, perché la balaustra è sottile ed esposta al vuoto primordiale ed il volo è un brivido affascinante e sublime che l’immaginazione non riesce a trattenere, ma neanche a lasciare andare, che non può arginare.
Oltre Castrovalva c’è soltanto un ruvido cielo a spicchi che giura pioggia.
Ad accogliermi c’è un fico ancora in embrione, una sedia di paglia sfilacciata e una fontana che non smette di erogare acqua sorgente. A Castrovalva d’inverno ci sono quindici abitanti, ma qualcuno giura orgogliosamente diciotto. Il paese è una grande casa, i vicoli sono corridoi di tufo vergine. Sulla facciata della chiesa c’è un grande orologio da polso ricoperto da una lastra di vetro opaco. La piazza non ha nome e sul cartello c’è scritto semplicemente Piazza.
D’estate si arriva in tutto a duecento, tra parenti ed amici e qualche romantico solitario. Al paese si accede solo a piedi. Fabrizio, non è di queste parti, come non lo sono le bretelle che indossa e lo è ancor meno sua moglie, una grossa donna olandese sorridente e bionda. L’accento della capitale lo tradisce e giura che scappa da Roma tutte le volte che può, perché si è innamorato di questo posto trent’anni fa e non lo lascerebbe per niente al mondo. Il terremoto ha solo lambito Castrovalva. Tutto si è salvato qui, eccetto una parete della chiesa di Santa Maria a Nives. A Castrovalva si muore soltanto eppure la vita trabocca e fiorisce nella sua solitudine inerme e nella dignità dei fili d’erba inesorabilmente irrorati dal sole.

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