domenica 20 settembre 2009

Palermo (Italia, Sicilia, Mediterraneo)





Fuori respiriamo. Per la prima volta abbiamo avuto paura. Le bombe continuano a piovere.

(Agota Kristof - Trilogia della città di k.)

Palermo smodata, disagio e delirio. Palermo eccessiva e imbarazzante. Palermo martirio. Dal porto di palme e vento, intriso dell’aroma di alici e di petrolio delle navi si accede direttamente ai quartieri poveri che prorompono direttamente dalla polvere della cala e dalle acque del mare.

Palermo volto sacro e spirito santo, il ventre di una giovane vedova che viene dal mare, da lontano, nei secoli dei secoli, che ha mille volti ma in braccio porta i suoi vicoli, e li culla e li allatta, come una madre preoccupata e paziente; la Vucciria e la Kalsa somigliano alle sue vene gonfie di sangue bollente; quei vicoli sono simili ai rivoli delle acque, alle correnti in cui regna un’atmosfera madida di tufo, di pace e di stantio; le lampadine illuminano il giorno acceso sulle bancarelle mentre le voci bagnate e graffiate dei pescatori fanno il prezzo e i lamenti strillati delle giovani madri si rincorrono e rimboccano precipitosamente le strade.

Palermo preghiera e iconografia dei santi, Palermo blasfema e ortodossa. Palermo lercia. All’improvviso una cattedrale, semplicemente un altare oppure anche una chiesa, le cui pareti, incensate dagli unguenti del mare, sono di un impasto grigio, di cemento e salsedine. Dovunque è un affollarsi di palazzi di un tempo diverso, ciascuno differente dall’altro, intonati in una tinta unica e dissonante, insensata, quell’ocra antico di sabbia africana che rimanda ai toni soffusi delle lampade a petrolio, alle architetture marocchine fino ai maestosi capricci dei califfi orientali. Dalla Kalsa fino a Porta Nuova passando per Pretoria, Santa Caterina, I quattro canti, la cattedrale e la cappella palatina. Un famelico andirivieni di colori, crogiuolo di epoche, crocevia di tratti.

Porto enorme, Palermo madre con le sue voci, quelle dei venditori ambulanti di pesce, di olive e di spezie, dei commercianti di tonno e di milza che stazionano davanti alle proprie botteghe, con le facce gonfie di chi non ha dormito. Dovunque si ascolta il loro grido, una nenia dolce e sboccata, Palermo slabbrata; una lingua che è il ritorno ad un canto, ad un sospiro in versi in cui le vocali lunghe e gli accenti acerbi richiamano all’incanto delle leggendarie sirene ed ai versi dei celebratori turchi che salutano l’arrivo del sole.

Piove, un diluvio torrenziale cinge Palermo e tra i vicoli di Ballarò ricoperti di mondezza e di bancarelle in cui si grida di frutta e pesce vivo, nessuno sembra credere all’acqua che viene dall’alto. E’ il sole buio, la profezia magica dell’oro bagnato che tutti speravano, la ricompensa per il supplizio di un’estate rovente. Nel mercato tutti tendono le braccia verso l’alto, per un attimo maledicono i loro affari e mentre lanciano grida di gioia, si inchinano per salutare l’arrivo del mare che viene dal cielo. A Ballarò le case hanno gli intonaci fatiscenti, le bombole del gas sono fuori ai balconi e alcune abitazioni hanno i tetti sfondati; ma i bambini continuano a giocare a pallone sotto ai teloni, davanti alle porte negozi e ai cancelli delle chiese.

Nella Kalsa, in Via Alloro, poco prima di palazzo Abetellis, mi fermo davanti ad un negozio senza insegna che ha la serranda semichiusa. Fuori su un cartello c’è scritto a penna Miezu pani ca meusa 1,70€. Entro. Padre e figlio hanno la stessa stazza. Sono larghi almeno quanto la loro altezza. L’ambiente è sudicio, il bancone è misero. Il padre impreca in dialetto siciliano e taglia a fette un panetto di carne scura e dura che raccoglie in una bacinella. Ordino una panino. Il giovanotto lascia cadere le fette di meusa nel pentolone dove è lasciato friggere e bollire lo strutto e un olio nero. Li riprende qualche attimo dopo, e senza farli scolare ne comprime un grosso quantitativo nel pane fresco.

Nessun commento:

Posta un commento