Pontelandolfo è un sasso in un abisso, un paese che sta in disparte, lontano, inginocchiato e racchiuso sulle sue gambe. Un bicchiere d’acqua lasciato per giorni ad aspettare sul comodino. L’essenza della bellezza è nella sua assenza, espressa in una cornice che racchiude tutto il vuoto colossale che c’è intorno. La sua timidezza è solo un alibi, un ventaglio dietro cui celare lo sguardo. E’ piuttosto una miscela di imbarazzo e presunzione, una sorta di indifferenza e di distacco dal mondo, dagli altri paesi, con i quali non ha nulla in comune, almeno apparentemente. Il nulla è nel suo sguardo che si scioglie nella sensualità di un silenzio assordante.
Per arrivarci bisogna proprio scegliere di andare a Pontelandolfo, bisogna averlo deciso, perché il paese non è il solito gruppo di case che si incontra lungo una strada. Pontelandolfo è decisamente restio alla folla, recalcitrante ai dialoghi inutili, infastidito dal chiacchiericcio e dall’inciucio. Si trova alla fine di uno svincolo che si imbocca lungo la panoramica che costeggia il dorso del Matese e conduce nel territorio molisano, al termine di una strada che non continua perché muore definitivamente nel cuore del paese. Dopo Guardia Sanframondi, oltre San Lupo, giunge Pontelanfolfo. Io ci arrivo una domenica pomeriggio intorno alle tre, attratto dal suo nome imbellettato, cardinalizio e altisonante, in una zona che ospita già altri nomi imbellettati: Sanframondi, Casalduni, Castelvenere e Pontelandolfo appunto. L’ora è quella che preferisco, quella del dopopranzo domenicale, quella dell’ultimo bicchiere di vino prima del sonno definitivo, quella della canicola pomeridiana, quella del segnale disturbato della radiolina che sopravvive ancora tra le montagne; l’ora in cui le donne sbattono le tovaglie piene di briciole e corrono a preparare i capelli per la visita più importante della settimana. Pontelandolfo è chiuso in casa e fuori sbatte un vuoto assolato e assoluto. Mi accoglie uno stradone largo che conduce fino alla piazza enorme ed ariosa come il petto di una donna, su cui si erge il seno imponente della torre medioevale, che abbraccia tutto il paese cingendolo con le braccia che salgono lateralmente verso il centro storico. Il viale è molto spazioso, reso ancora più ampio dal sole ardente e dalla solitudine spaventosa. Non sono solo, mi tengono compagnia le splendide ringhiere che danno su panorami disabitati, i lampioni spenti e gonfi di fascino, le porte di legno scuro serrate con catenacci pesanti, i palazzi chiusi ed il vento che non c’è.
Una donna in tenuta ginnica ha le cuffie alle orecchie, percorre ad andatura stanca il perimetro del suo terrazzo striminzito. Fuori ai bar ci sono soltanto le sedie ed i tavolini e le pagine di un giornale ormai già vecchio. I ciottoli e l’immenso viale. E basta. Nell’aria c’è un sapore di caciotta, pregno di latte e di mungitura, un intenso profumo di ricotta. E’ finita da qualche ora la gara del lancio del formaggio, come apprendo da uno striscione appeso al centro della strada. Oggi non voglio parlare con nessuno, non mi va di incontrare gente del paese, non mi va di sapere, di chiedere, di guardare. Respirare è già abbastanza. Un cane saluta in modo chiassoso il mio arrivo. Comincio a fotografare le finestre. Una bambina esce dal portone di casa sua e mi ricorda che la vita esiste. Viene incontro di corsa, dicendomi con tono minaccioso che non si possono fare fotografie al suo paese. Dice che è vietato. Muovo una mano per accarezzarla ma lei la allontana infastidita.