“Vi scongiuro Fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze”(F.Nietzsche)
Mario è il barbiere che si trova nella piazza di Gesualdo, nel cuore del centro storico del paese irpino che prende il nome dal padre dei madrigali, Gesualdo da Venosa appunto. Mario non è uno di quelli che taglia la barba e basta, che aggiusta le basette e accorcia la lunghezza delle tempie. Mario è molto di più per me oggi in questo pomeriggio spietato e umido. Dietro quello sguardo stanco che si ripara a fatica dal sole c’è la voce graffiata di un filosofo cresciuto tra le montagne e la leggerezza di un libero pensatore. Mario indossa un cappellino rosso con la scritta “Campari” e mantiene volutamente una barba incolta, che gratta di continuo, specie quando il discutere si accanisce. Nel taschino del camice azzurro conserva obliquo un pettine bianco, ha l’unghia del mignolo cresciuta e quando parla porta sempre la mano sulla fronte, come a volersi difendere dall’invadenza della luce, spessa come l’aria rappresa e pesante. Mario siede fuori al suo locale su una sedia di legno, sbilenco e stravaccato, al centro della piazza deserta, come chi non vuol sapere nulla, come chi si gode il sole e nient’altro, come chi sa che anche oggi non verrà nessuno a radersi la barba. La vedi quella fontana, quella fontana è bellissima. E’ del seicento. Si vede ancora la tinta rosa che aveva una volta. Doveva essere incantevole. Gesualdo è il paese dei madrigali ma non si sente mai nessuno suonare. La sua parlata è quella di un capocantiere cocciuto che predilige un approccio della realtà pratico e concreto e che non bada a spese.
Abbiamo un castello, potevamo farci l’università della musica, potevamo sfruttare la storia del nostro paese, invece il castello è sempre chiuso e dentro ci sono solo cumuli di polvere. Dalle parti nostre non nasce nulla e i giovani sono scappati via.
C’è troppa gente in giro considerata l’ora. Sono le tre del pomeriggio e a Gesualdo si respira l’aria dell’attesa, di qualcosa che sta per succedere senza preavviso. Ma lo scenario fatica a cambiare, non muta; il nulla è l’unica cosa che invade questo luogo, è l’unico accadimento, e si manifesta in tutta la sua schiettezza. Un lungo scalone bianco conduce fino alla piazza della fontana come sempre. Il castello è imponente e la cattedrale è aperta. Il volo dell’angelo è un capitolo dell’immaginazione. Un bambino imbracato viene calato dalla cima del campanile della cattedrale fino all’estremità del castello. Sotto ci sono le fiamme ed il demonio. Chiedo informazioni e mi avvicino alla chiesa. La porta è aperta, stanno ultimando le pulizie e le donne sorridono quando scatto qualche foto.
Questa parte di Irpinia è un tappeto lucente, è una reazione d’orgoglio, un enorme lenzuolo di prato steso a succhiare raggi di sole, una pagina che vale la pena rileggere. La strada che da Mirabella Eclano conduce fino a Lacedonia la taglia a metà, esattamente in due parti, lasciando a Sud una folla di paesini che si accalcano anche sulla cartina stradale. E’ un groviglio di nomi, un accapigliarsi di paesi che si rincorrono. Il paesaggio è spoglio ma le tinte bruciano di luce; non è aspro ed ostile come quello delle mie parti, ma è docile e dolce. Qui non c’è la roccia delle alture sannite e neanche la vegetazione fitta dei boschi del Matese. Se parlassero una lingua diversa saremmo in un’altra nazione. Prevale il colore ed il calore che infonde questa terra. Una terra che trasuda forza, sforzo e coraggio alla stregua del suo verde, un colore che da queste parti assume una tonalità più coraggiosa che altrove, poiché sovente sfuma in giallo oro, in una tinta simile ad una patina bagnata che rende lucido tutto quello che copre. E’ l’Irpinia, la terra in cui gli olivi sono ancora troppo giovani mentre la terra trabocca di una speranza bruna e profumata che sa di vino, di un colore intenso e vivo che regala ebbrezza solo a respirarlo. Frigento è un cappello lasciato su un attaccapanni a prendere polvere. E’ così in alto che quasi non mi accorgo di essere arrivato a mille metri di altezza. Il paese tace avvolto in una cappotto di silenzio e di quiete. Mi infilo nei viottoli nuovi di pavimento bianco levigato, di scarpe lucide. Frigento è stato appena lavato, ora è pronto per il grande evento. Alcune porte hanno degli infissi orribili. Frigento sembra più che mai morta a quest’ora in cui non nulla si muove in giro.
Abbiamo un castello, potevamo farci l’università della musica, potevamo sfruttare la storia del nostro paese, invece il castello è sempre chiuso e dentro ci sono solo cumuli di polvere. Dalle parti nostre non nasce nulla e i giovani sono scappati via.
C’è troppa gente in giro considerata l’ora. Sono le tre del pomeriggio e a Gesualdo si respira l’aria dell’attesa, di qualcosa che sta per succedere senza preavviso. Ma lo scenario fatica a cambiare, non muta; il nulla è l’unica cosa che invade questo luogo, è l’unico accadimento, e si manifesta in tutta la sua schiettezza. Un lungo scalone bianco conduce fino alla piazza della fontana come sempre. Il castello è imponente e la cattedrale è aperta. Il volo dell’angelo è un capitolo dell’immaginazione. Un bambino imbracato viene calato dalla cima del campanile della cattedrale fino all’estremità del castello. Sotto ci sono le fiamme ed il demonio. Chiedo informazioni e mi avvicino alla chiesa. La porta è aperta, stanno ultimando le pulizie e le donne sorridono quando scatto qualche foto.
Questa parte di Irpinia è un tappeto lucente, è una reazione d’orgoglio, un enorme lenzuolo di prato steso a succhiare raggi di sole, una pagina che vale la pena rileggere. La strada che da Mirabella Eclano conduce fino a Lacedonia la taglia a metà, esattamente in due parti, lasciando a Sud una folla di paesini che si accalcano anche sulla cartina stradale. E’ un groviglio di nomi, un accapigliarsi di paesi che si rincorrono. Il paesaggio è spoglio ma le tinte bruciano di luce; non è aspro ed ostile come quello delle mie parti, ma è docile e dolce. Qui non c’è la roccia delle alture sannite e neanche la vegetazione fitta dei boschi del Matese. Se parlassero una lingua diversa saremmo in un’altra nazione. Prevale il colore ed il calore che infonde questa terra. Una terra che trasuda forza, sforzo e coraggio alla stregua del suo verde, un colore che da queste parti assume una tonalità più coraggiosa che altrove, poiché sovente sfuma in giallo oro, in una tinta simile ad una patina bagnata che rende lucido tutto quello che copre. E’ l’Irpinia, la terra in cui gli olivi sono ancora troppo giovani mentre la terra trabocca di una speranza bruna e profumata che sa di vino, di un colore intenso e vivo che regala ebbrezza solo a respirarlo. Frigento è un cappello lasciato su un attaccapanni a prendere polvere. E’ così in alto che quasi non mi accorgo di essere arrivato a mille metri di altezza. Il paese tace avvolto in una cappotto di silenzio e di quiete. Mi infilo nei viottoli nuovi di pavimento bianco levigato, di scarpe lucide. Frigento è stato appena lavato, ora è pronto per il grande evento. Alcune porte hanno degli infissi orribili. Frigento sembra più che mai morta a quest’ora in cui non nulla si muove in giro.
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