mercoledì 27 gennaio 2010

De Paesologia...


(Dal Blog Comunità provvisoria - Franco Arminio)

La paesologia è in guerra con le parole, è in guerra con le astrazioni. È quella che faccio girando da solo per i paesi, non è l’intervista, non è il commento che scrivo su un blog, non è la mail in cui mi lamento, non la frasetta che metto ogni tanto anch’io su face book. La paesologia viene quando penso alla morte in mezzo a una strada vuota, quando sto col vento in faccia, quando do un pezzo del mio panino a un cane.

La paesologia è l’illusione di trovare anime mute, anime sconvolte dal clamore di un attimo qualsiasi e non dagli spettacolini del tubo catodico o del pianeta google.

Io so che la parola ormai è come infiammata, non è più il distillato verbale della carne, non è la meraviglia con cui possiamo dire il mondo, ma un’affezione, una sorta di tubercolosi elettronica che ci fa tossire nell’aria verbi inutili e aggettivi che non spiegano niente. È una malattia che cresce consumandosi, più parliamo e più la nostra mente diventa un luogo intossicato. Con la paesologia provo a offrire, a offrirmi un rimedio. È la farmacia dell’andare fuori, lontano dagli schermi, è il passare sui marciapiedi dove non passa nessuno, è il sedersi dove non si siede nessuno. Il paesologo quando sta bene dialoga con le porte chiuse, coi gatti, con quelli che non sono al passo coi tempi.

Cerco i paesi che sono rattrappiti o quelli che crescendosi si sono perduti. Cerco sempre e comunque forme di esistenza in cui qualcuno sappia dare un filo di beatitudine al proprio fallimento.

venerdì 22 gennaio 2010

La città e la memoria


Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dèi, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già le conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh! Gli viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’essere stati quella volta felici.

(Le città invisibili – I.Calvino)

martedì 19 gennaio 2010

Fuoco


La terra è la terra e la terra di questi luoghi si sbriciola, non brucia e non sorride, ma arranca e si consuma su un filo che si scioglie, non appena sbiadisce il sole. Il pallore della sera è riflesso sui vetri appannati che oscurano l’esterno, nell’aria gonfia e gravida di una pioggia attesa, ed è cosparso dei fumi dei tramonti tersi, disperso in un orizzonte di sale, piatto e sfinito, che tarda, tarda senza avvisare. I Camini impastano fuoco, pestano legna, tritano tizzoni ardenti ed infine sputano fumo dai pinnacoli sporchi di carbone in cima, ricacciando la nebbia disposta a bancali bianchi e ordinati. Il fuoco risorge e sventola come un drappo bagnato e strappa a tratti come il vento, silenzioso e severo, teso e duro come le lenzuola tirate su un letto di primavera arrivata davvero troppo presto. Il barlume marcio della muffa è la voce che acceca e irradia il cuore delle case, il bagliore che tace ed illumina le ombre di chi se n’è andato, le crepe dei volti che trasudano sorrisi tristi di chi rincorre la notte un giorno si e l’altro pure, le preghiere assorte bestemmiate in silenzio.

Nella casa di Fortunato c’è un aroma intenso di brodo di pollo che si mescola a quello dei broccoli lessati, lasciati in solitudine a bollire sul fuoco. E’ un’atmosfera rappresa e spessa che brilla opaca nell’aria satolla, intrisa di umidità e di vapore, che ricopre ogni cosa, dalle pentole alle sedie, alla stregua di una patina grigia. Il suono scomposto del gorgoglio della bollitura proveniente dalla cucina è una nenia permanente che non conosce acuti, ma che è sufficiente ad alterare il silenzio assordante del primo mattino. Fortunato è un uomo di mezza età e vive con sua moglie Corona, una donna galiziana trapiantata da queste parti. Fortunato non lavora più, vive della sua pensione che ha maturato in Svizzera, dove è stato a lavorare per tanti anni, prima come imbianchino e poi come operaio di una fabbrica di vernici, infine in una falegnameria. Oggi è uguale a ieri e Fortunato siede sempre su una panchina di legno scorticata, e divora il tempo pensando al suo paese che non riconosce più, guardando la fontana che piscia acqua sempre con lo stesso spruzzo; pensa alla Svizzera che lo ha tradito perché gli ha portato via i suoi figli e guarda le sue mani per scorgere nei calli e nelle venature incise nei palmi i ricordi del tempo in cui aveva la forza, quando si alzava la mattina presto con ancora addosso i vestiti del giorno prima. Osserva il muschio che proviene da sotto terra che si arrampica sulle mura e sul tufo e i ciuffi d’erba che scavalcano i marciapiedi di pietra, sbavano a ciocche e tacciono per sempre e non si muovono più.