Un vecchio libro sdrucito, dai rivoli ingialliti, e una donna anch’essa abulica che siede alla cassa del suo bancone lercio e dimenticato. Ella non possiede parole per nessuno e sputa fumi di tabacco scadente e maleodorante e infine calza un trucco fitto e finto. Non fa niente se non attraversare con lo sguardo il miasma che soffia a boccate. Le strettoie soffocanti del tufo e della polvere sono due mani che cingono il collo di Napoli, la raccolgono in un abbraccio che stringe ma che al tempo stesso si trattiene, mentre negli anfratti anemici e sbiaditi, gonfi di miseria e ingolfati di sporcizia e di facce troppo piccole per essere già così vecchie, piove un tempo irretito ed immobile. Fatiscente, ossessiva, famelica, cinica, affranta, tetra, decrepita, complice, senz’altro complicata. Ercolano è una località di esilio e suona una musica che non si ascolta altrove e le sue note sono il canto di chi rivendica ciò che sta per accadere prim’ancora di rimuginare quanto è appena andato via. Tra le pieghe del volto c’è il risvolto del dolore che si annida e si confonde, la ferita della morte che accarezza ogni espressione del viso e sommerge il sorriso che non fiorisce mai del tutto. Nei vicoli che cingono il mare senza mai afferrarlo, tra le sedie disposte alla rinfusa, suona il boato scaltro di uno schiaffo, seguito da un pianto che è una nenia flebile ed incolore, una cantilena fischiata, una voce simile ad un canto muto. Corrotta, unta e devastata, perversa, sconfitta e pervasa, oscura, antica, intima e isterica. Graffiata.
Sboccata, Ercolano non è mai sbocciata!
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